NON DIMENTICARE BERLINGUER
-la sinistra italiana tra Partito Democratico e sogni di rinnovamento-
Andare oltre la sinistra: creare un partito unico dei riformisti italiani anche a costo di superare i principi cardine del socialismo europeo. Sono questi gli aforismi che più chiaramente descrivono il momento storico in cui si inquadra il trentacinquesimo anniversario dell’elezione di Enrico Berlinguer a segretario del PCI.
In una fase caratterizzata dalla definitiva negazione delle ideologie tradizionali, dall’arbitraria sovrapposizione dei valori che hanno caratterizzato le grandi culture del 1900, la figura del Segretario sassarese continua a rimanere al centro del dibattito politico: icona di coraggio e passione morale per quanti continuano a riconoscersi nei principi della sinistra post-marxista; ingombrante retaggio di un passato da dimenticare in fretta per i sostenitori del nuovo riformismo all’italiana.
In tal senso, sull’onda dell’esortazione a “dimenticare Berlinguer!” proposta da Miriam Mafai undici anni or sono, notevole favore hanno incontrato le costruzioni dirette ad individuare, sulla base della contestabile equiparazione tra il congresso di Rimini del 1991 e l’assise che i DS hanno convocato a Firenze per il prossimo 21 aprile, nella creazione del PD il momento conclusivo di quella stagione di trasformazione della sinistra italiana avviata proprio attraverso l’elaborazione della strategia del compromesso storico.
Tuttavia, è per i militanti al momento impossibile dimenticare Berlinguer, come incontestabile è l’assunto in base al quale il Segretario, i cui imperscrutabili silenzi erano di per sé stessi indicativi di una tensione ideale fuori dal comune, non si riconoscerebbe nelle “passioni fredde della politica politicante” su cui si fonda il progetto sostenuto da Piero Fassino.
Gli anni ’70 vengono ricordati da chi li ha vissuti come l’epoca fatata dei miti cantati e delle contestazioni, in cui le migliaia di persone che viaggiavano alla conquista della Nuova Frontiera andavano continuamente a sbattere contro i tanti muri che attraversavano un Mondo diviso in blocchi, vedendo il loro sogno affogato nel sangue delle stragi rosse e delle stragi nere o affossato dalle trame di quei tanti centri di potere palesi ed occulti i quali, direttamente o indirettamente, reggevano le sorti del nostro Paese.
E’ in questo sistema che la figura di Berlinguer si inquadra: un uomo timido ed un politico audace, dimostratosi in grado, con la sua semplicità, di mettere in discussione gli equilibri tra le varie sfere di influenza che allora di fatto dominavano il Pianeta. La proposta di un nuovo socialismo da sviluppare “sotto l’ombrello della NATO”, l’idea del dialogo tra cattolici e marxisti, la prospettiva di un’Europa affrancata dal giogo dei due diversi imperialismi costituiscono i momenti centrali di un disegno ispirato ad una logica unitaria: indicare al Partito Comunista la strada verso la socialdemocrazia.
E questa affermazione non può essere confutata nella sua veridicità dal rilievo secondo cui il PCI avrebbe finito col rappresentare un sinistra massimalista in competizione con le moderne visioni di quel Bettino Craxi che oggi Fassino giunge ad identificare come uno dei padri nobili del nascente Partito Democratico. Contrapponendosi al CAF, il Segretario sassarese manifestava semplicemente la necessità di avversare un sistema di potere che la Storia ha giudicato alla stregua di una rete di corruzione istituzionalizzata le cui maglie erano appunto costituite da quell’insieme di politici disinvolti, criminali in carriera e adepti di logge massoniche deviate che imperversavano nell’Italietta della prima Repubblica.
Tutto ciò posto, emerge chiaramente la differenza che intercorre tra la svolta della Bolognina e l’attuale congresso diretto a ratificare il progetto del PD: premesso in primo luogo che la strategia del compromesso storico non era da considerarsi in alcun modo volta ad obliterare la principale realtà della sinistra italiana in una sorta di acefalo contenitore moderato, nel 1991 i comunisti furono chiamati a trovare il coraggio necessario per guardarsi dentro e prendere atto, anche e soprattutto alla luce del crollo del muro di Berlino, della loro ormai conseguita identità socialdemocratica.
Il passaggio che Fassino oggi vuole imporre ai DS risulta caratterizzato da prospettive di gran lunga più incerte, in considerazione del fatto che si richiede alla principale realtà progressista del Paese di cambiare pelle, rinunciando al proprio essere di sinistra. Insomma, un autentico salto nel buio; un volo senza paracadute verso un baratro oscuro nelle cui profondità potrebbe anche annidarsi la fine del socialismo italiano.
In verità, l’Italia attraversa oggi una fase contraddistinta da un preoccupante vuoto ideologico: al pari di Forza Italia, il Partito Democratico, soggetto politico senza cuore in quanto non ispirato ad un chiaro ideale di riferimento, è un prodotto diretto di questa triste stagione. E’ quindi palese l’esigenza di ripensare i DS non solo come un partito profondamente rinnovato nel suo gruppo dirigente, ma come una forza capace di rappresentare appieno quei valori di pace, giustizia, laicità e tutela del lavoro stabile che costituiscono da sempre il sostrato essenziale del socialismo europeo e che continuano ad accendere la passione e l’entusiasmo di iscritti e militanti. E in un epoca in cui passione ed entusiasmo sembrano lasciare il posto alle vuote alchimie di grigi dirigenti privi del carisma proprio dei grandi leaders, la sinistra italiana non può permettersi di dimenticare Berlinguer.
Carlo Dore jr.
-la sinistra italiana tra Partito Democratico e sogni di rinnovamento-
Andare oltre la sinistra: creare un partito unico dei riformisti italiani anche a costo di superare i principi cardine del socialismo europeo. Sono questi gli aforismi che più chiaramente descrivono il momento storico in cui si inquadra il trentacinquesimo anniversario dell’elezione di Enrico Berlinguer a segretario del PCI.
In una fase caratterizzata dalla definitiva negazione delle ideologie tradizionali, dall’arbitraria sovrapposizione dei valori che hanno caratterizzato le grandi culture del 1900, la figura del Segretario sassarese continua a rimanere al centro del dibattito politico: icona di coraggio e passione morale per quanti continuano a riconoscersi nei principi della sinistra post-marxista; ingombrante retaggio di un passato da dimenticare in fretta per i sostenitori del nuovo riformismo all’italiana.
In tal senso, sull’onda dell’esortazione a “dimenticare Berlinguer!” proposta da Miriam Mafai undici anni or sono, notevole favore hanno incontrato le costruzioni dirette ad individuare, sulla base della contestabile equiparazione tra il congresso di Rimini del 1991 e l’assise che i DS hanno convocato a Firenze per il prossimo 21 aprile, nella creazione del PD il momento conclusivo di quella stagione di trasformazione della sinistra italiana avviata proprio attraverso l’elaborazione della strategia del compromesso storico.
Tuttavia, è per i militanti al momento impossibile dimenticare Berlinguer, come incontestabile è l’assunto in base al quale il Segretario, i cui imperscrutabili silenzi erano di per sé stessi indicativi di una tensione ideale fuori dal comune, non si riconoscerebbe nelle “passioni fredde della politica politicante” su cui si fonda il progetto sostenuto da Piero Fassino.
Gli anni ’70 vengono ricordati da chi li ha vissuti come l’epoca fatata dei miti cantati e delle contestazioni, in cui le migliaia di persone che viaggiavano alla conquista della Nuova Frontiera andavano continuamente a sbattere contro i tanti muri che attraversavano un Mondo diviso in blocchi, vedendo il loro sogno affogato nel sangue delle stragi rosse e delle stragi nere o affossato dalle trame di quei tanti centri di potere palesi ed occulti i quali, direttamente o indirettamente, reggevano le sorti del nostro Paese.
E’ in questo sistema che la figura di Berlinguer si inquadra: un uomo timido ed un politico audace, dimostratosi in grado, con la sua semplicità, di mettere in discussione gli equilibri tra le varie sfere di influenza che allora di fatto dominavano il Pianeta. La proposta di un nuovo socialismo da sviluppare “sotto l’ombrello della NATO”, l’idea del dialogo tra cattolici e marxisti, la prospettiva di un’Europa affrancata dal giogo dei due diversi imperialismi costituiscono i momenti centrali di un disegno ispirato ad una logica unitaria: indicare al Partito Comunista la strada verso la socialdemocrazia.
E questa affermazione non può essere confutata nella sua veridicità dal rilievo secondo cui il PCI avrebbe finito col rappresentare un sinistra massimalista in competizione con le moderne visioni di quel Bettino Craxi che oggi Fassino giunge ad identificare come uno dei padri nobili del nascente Partito Democratico. Contrapponendosi al CAF, il Segretario sassarese manifestava semplicemente la necessità di avversare un sistema di potere che la Storia ha giudicato alla stregua di una rete di corruzione istituzionalizzata le cui maglie erano appunto costituite da quell’insieme di politici disinvolti, criminali in carriera e adepti di logge massoniche deviate che imperversavano nell’Italietta della prima Repubblica.
Tutto ciò posto, emerge chiaramente la differenza che intercorre tra la svolta della Bolognina e l’attuale congresso diretto a ratificare il progetto del PD: premesso in primo luogo che la strategia del compromesso storico non era da considerarsi in alcun modo volta ad obliterare la principale realtà della sinistra italiana in una sorta di acefalo contenitore moderato, nel 1991 i comunisti furono chiamati a trovare il coraggio necessario per guardarsi dentro e prendere atto, anche e soprattutto alla luce del crollo del muro di Berlino, della loro ormai conseguita identità socialdemocratica.
Il passaggio che Fassino oggi vuole imporre ai DS risulta caratterizzato da prospettive di gran lunga più incerte, in considerazione del fatto che si richiede alla principale realtà progressista del Paese di cambiare pelle, rinunciando al proprio essere di sinistra. Insomma, un autentico salto nel buio; un volo senza paracadute verso un baratro oscuro nelle cui profondità potrebbe anche annidarsi la fine del socialismo italiano.
In verità, l’Italia attraversa oggi una fase contraddistinta da un preoccupante vuoto ideologico: al pari di Forza Italia, il Partito Democratico, soggetto politico senza cuore in quanto non ispirato ad un chiaro ideale di riferimento, è un prodotto diretto di questa triste stagione. E’ quindi palese l’esigenza di ripensare i DS non solo come un partito profondamente rinnovato nel suo gruppo dirigente, ma come una forza capace di rappresentare appieno quei valori di pace, giustizia, laicità e tutela del lavoro stabile che costituiscono da sempre il sostrato essenziale del socialismo europeo e che continuano ad accendere la passione e l’entusiasmo di iscritti e militanti. E in un epoca in cui passione ed entusiasmo sembrano lasciare il posto alle vuote alchimie di grigi dirigenti privi del carisma proprio dei grandi leaders, la sinistra italiana non può permettersi di dimenticare Berlinguer.
Carlo Dore jr.
Nessun commento:
Posta un commento