IL PD, LA GIUSTIZIA E LE “NORME ANTI-CASTA”
In un bell’articolo recentemente apparso sulle colonne de “L’Unità”, Giancarlo Caselli ha elaborato una serie di spunti di riflessione in ordine all’impostazione che dovrebbe caratterizzare le linee guida del programma del Partito Democratico in tema di giustizia e legalità.
Rilevando come le ultime proposte di riforma del sistema giudiziario sono state ispirate esclusivamente dalla necessità di superare l’eterno conflitto tra politica e magistratura - conflitto alimentato dalla ben nota tendenza di alcuni capi-bastone delle aule parlamentari ad abusare delle prerogative riconnesse alla loro carica per difendersi “dai” processi intentati nei loro confronti - , il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Torino ha individuato in alcune infelici scelte legislative, nell’irrazionale gestione delle esigue risorse disponibili, nelle carenze degli organici e nell’eccessiva farraginosità della disciplina che governa tanto il processo civile quanto il processo penale le principali cause della manifesta inadeguatezza del suddetto sistema a rispondere alle istanze dei cittadini.
Alle osservazioni del Capo della Procura torinese ha prontamente risposto Walter Veltroni, il quale – assicurando che la materia della giustizia sarà al centro del programma del nuovo soggetto politico – ha precisato come l’approvazione di un rigoroso Codice Etico interno consentirà al PD di presentarsi agli elettori come una forza in grado di superare quella perversa rete di privilegi e clientele che della famosa Casta costituisce la principale ragion d’essere.
In questo senso, è stato espressamente richiamato l’art. 5 comma 2 del medesimo Codice Etico, norma la quale di fatto preclude la candidatura nelle liste del Partito Democratico di soggetti sottoposti a procedimento penale per reati connessi al fenomeno mafioso o per delitti di particolare pericolosità sociale, condannati in via non definitiva per fatti di corruzione o concussione, condannati con sentenza passata in giudicato per altre fattispecie criminose contraddistinte da un non ben precisato “carattere di particolare gravità”.
Ora, se da un lato non si può negare che l’introduzione di un simile principio costituisce un notevole contributo alla riaffermazione di una concezione “etica” della politica (come tale, ispirata ai valori dell’onestà, della trasparenza e del rigore morale), non si può d’altro lato non rilevare come la disposizione sopra richiamata presenta, nel suo ambito applicativo, una preoccupante serie di zone d’ombra.
Essa infatti non solo permette che nelle liste del nuovo partito trovino spazio soggetti condannati in primo grado o in grado di appello per delitti particolarmente riprovevoli contro il patrimonio, l’economia o la pubblica amministrazione (si pensi, solo per fare qualche esempio, al reato di abuso d’ufficio, alle ipotesi di truffa o alle tante fattispecie connesse alla c.d. criminalità economica, come l’aggiottaggio o l’insider trading), ma non impedisce nemmeno la candidatura dei tanti politici indagati – o addirittura rinviati a giudizio – con riferimento alle numerose inchieste per fatti di corruzione che quotidianamente riempiono le pagine dei giornali dedicate alla cronaca giudiziaria.
Premesso inoltre che al momento non è possibile individuare le ipotesi delittuose che verranno considerate gravi a tal punto da impedire ad un soggetto condannato in via definitiva di sottoporsi al giudizio degli elettori, i limiti previsti all’applicabilità di questa “norma anti-casta” verranno desumibilmente giustificati attraverso il ricorso a logiche di tipo garantista che impongono di non comprimere eccessivamente lo spazio di partecipazione alla vita politica in particolare per quei cittadini la cui reità non è stata accertata attraverso una sentenza avente l’efficacia del giudicato.
Tuttavia, nella prospettiva di assicurare un equilibrato contemperamento di siffatte logiche garantiste con la già richiamata necessità di riaffermare una concezione etica della politica, riteniamo che la statuizione di una regola diversa – volta ad impedire la ricomprensione nelle liste del nuovo soggetto politico di tutti coloro i quali risultano, a seguito di un decreto del PM o di un provvedimento del GUP assunto sulla base delle risultanze delle indagini preliminari, rinviati a giudizio per reati punibili con l’applicazione di una pena superiore ai due anni di reclusione – avrebbe determinato il radicale superamento delle ragioni di perplessità appena segnalate.
In questo senso, riprendendo le argomentazioni di Caselli, è facile ipotizzare che se tutti i partiti afferenti all’area progressista si attenessero a tale rigoroso principio nella scelta dei candidati per le prossime consultazioni elettorali, la buona politica, per una volta, riaffermerebbe il suo primato su quell’insieme di immunità e guarentigie da cui il ben noto fenomeno dell’antipolitica di fatto trae vita.
In un bell’articolo recentemente apparso sulle colonne de “L’Unità”, Giancarlo Caselli ha elaborato una serie di spunti di riflessione in ordine all’impostazione che dovrebbe caratterizzare le linee guida del programma del Partito Democratico in tema di giustizia e legalità.
Rilevando come le ultime proposte di riforma del sistema giudiziario sono state ispirate esclusivamente dalla necessità di superare l’eterno conflitto tra politica e magistratura - conflitto alimentato dalla ben nota tendenza di alcuni capi-bastone delle aule parlamentari ad abusare delle prerogative riconnesse alla loro carica per difendersi “dai” processi intentati nei loro confronti - , il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Torino ha individuato in alcune infelici scelte legislative, nell’irrazionale gestione delle esigue risorse disponibili, nelle carenze degli organici e nell’eccessiva farraginosità della disciplina che governa tanto il processo civile quanto il processo penale le principali cause della manifesta inadeguatezza del suddetto sistema a rispondere alle istanze dei cittadini.
Alle osservazioni del Capo della Procura torinese ha prontamente risposto Walter Veltroni, il quale – assicurando che la materia della giustizia sarà al centro del programma del nuovo soggetto politico – ha precisato come l’approvazione di un rigoroso Codice Etico interno consentirà al PD di presentarsi agli elettori come una forza in grado di superare quella perversa rete di privilegi e clientele che della famosa Casta costituisce la principale ragion d’essere.
In questo senso, è stato espressamente richiamato l’art. 5 comma 2 del medesimo Codice Etico, norma la quale di fatto preclude la candidatura nelle liste del Partito Democratico di soggetti sottoposti a procedimento penale per reati connessi al fenomeno mafioso o per delitti di particolare pericolosità sociale, condannati in via non definitiva per fatti di corruzione o concussione, condannati con sentenza passata in giudicato per altre fattispecie criminose contraddistinte da un non ben precisato “carattere di particolare gravità”.
Ora, se da un lato non si può negare che l’introduzione di un simile principio costituisce un notevole contributo alla riaffermazione di una concezione “etica” della politica (come tale, ispirata ai valori dell’onestà, della trasparenza e del rigore morale), non si può d’altro lato non rilevare come la disposizione sopra richiamata presenta, nel suo ambito applicativo, una preoccupante serie di zone d’ombra.
Essa infatti non solo permette che nelle liste del nuovo partito trovino spazio soggetti condannati in primo grado o in grado di appello per delitti particolarmente riprovevoli contro il patrimonio, l’economia o la pubblica amministrazione (si pensi, solo per fare qualche esempio, al reato di abuso d’ufficio, alle ipotesi di truffa o alle tante fattispecie connesse alla c.d. criminalità economica, come l’aggiottaggio o l’insider trading), ma non impedisce nemmeno la candidatura dei tanti politici indagati – o addirittura rinviati a giudizio – con riferimento alle numerose inchieste per fatti di corruzione che quotidianamente riempiono le pagine dei giornali dedicate alla cronaca giudiziaria.
Premesso inoltre che al momento non è possibile individuare le ipotesi delittuose che verranno considerate gravi a tal punto da impedire ad un soggetto condannato in via definitiva di sottoporsi al giudizio degli elettori, i limiti previsti all’applicabilità di questa “norma anti-casta” verranno desumibilmente giustificati attraverso il ricorso a logiche di tipo garantista che impongono di non comprimere eccessivamente lo spazio di partecipazione alla vita politica in particolare per quei cittadini la cui reità non è stata accertata attraverso una sentenza avente l’efficacia del giudicato.
Tuttavia, nella prospettiva di assicurare un equilibrato contemperamento di siffatte logiche garantiste con la già richiamata necessità di riaffermare una concezione etica della politica, riteniamo che la statuizione di una regola diversa – volta ad impedire la ricomprensione nelle liste del nuovo soggetto politico di tutti coloro i quali risultano, a seguito di un decreto del PM o di un provvedimento del GUP assunto sulla base delle risultanze delle indagini preliminari, rinviati a giudizio per reati punibili con l’applicazione di una pena superiore ai due anni di reclusione – avrebbe determinato il radicale superamento delle ragioni di perplessità appena segnalate.
In questo senso, riprendendo le argomentazioni di Caselli, è facile ipotizzare che se tutti i partiti afferenti all’area progressista si attenessero a tale rigoroso principio nella scelta dei candidati per le prossime consultazioni elettorali, la buona politica, per una volta, riaffermerebbe il suo primato su quell’insieme di immunità e guarentigie da cui il ben noto fenomeno dell’antipolitica di fatto trae vita.
Enrico Palmas
Carlo Dore jr.