ALLA RICERCA DELLO “ZAPATERO ITALIANO”
- promemoria per una Sinistra di Governo -
Nel commentare la straordinaria affermazione riportata da Zapatero in occasione delle elezioni politiche spagnole, Walter Veltroni ha osservato come tanto il successo del candidato del PSOE quanto i consensi ottenuti da Obama nelle primarie del Missisipi costituirebbero due segnali indicativi del fatto che, in Europa e nel Mondo, “spira un vento nuovo”: l’attuale stagione politica sarebbe infatti caratterizzata da un trend favorevole alle forze che afferiscono all’area riformista e socialdemocratica, di cui anche il PD si sente parte integrante.
Tuttavia, le (in massima parte condivisibili) argomentazioni del segretario del Partito Democratico lasciano irrisolti tre interrogativi fondamentali: su quali punti di contatto si regge il teorema volto a porre sullo stesso piano realtà, tra loro diverse per cultura e tradizione, come quella dei riformisti italiani, dei socialisti spagnoli e dei democratici statunitensi? Su quali presupposti Zapatero ha costruito la sua vittoria? E soprattutto, a quale tra i tanti presunti leaders operanti nel magmatico panorama della nostra “area democratica” può essere ragionevolmente attribuita la pesante etichetta di “Zapatero italiano”?
Individuando nel secondo dei tre quesiti appena prospettati il momento iniziale della nostra riflessione, devono essere integralmente condivise le conclusioni a cui è pervenuto Donald Sassoon (uno dei massimi studiosi della storia della sinistra europea) nella sua ultima intervista rilasciata a “L’Unità”: Zapatero ha vinto perché, nell’asfittico contesto del socialismo europeo, non ha ancora perso la capacità di proporre un’idea di politica imperniata sulla felice combinazione tra l’entusiasmo della militanza e l’efficienza propria di una concreta strategia di cambiamento, di trasmettere agli elettori quell’entusiasmo per il confronto democratico che i sostenitori della sinistra italiana sembrano avere smarrito da tempo.
In altre parole, Zapatero ha vinto perché è riuscito a proporre se stesso come l’espressione di una moderna “sinistra di governo”: l’immediato ritiro del contingente militare impegnato nel conflitto iracheno non ha infatti impedito l’elaborazione di una politica estera fortemente ispirata ai principi dell’europeismo e dell’atlantismo; le importanti riforme in tema di diritti civili e pari opportunità sono state accompagnate da misure rigorose dirette a reprimere il fenomeno del terrorismo separatista; alla crescita economica ha fatto seguito l’attuazione di un disegno volto ad affrancare il sistema radio-televisivo pubblico dal controllo dei partiti.
Proprio la qualificazione dei socialisti spagnoli come espressione di una “sinistra di governo” rappresenta la migliore risposta agli altri due interrogativi in precedenza formulati: posto infatti che la svolta progressista tratteggiata da Obama non deve al momento essere considerata idonea ad obliterare tout court le distanze che storicamente intercorrono tra i democratici americani e le forze progressiste europee, l’affermazione del PSOE, analizzata attraverso la lente della crisi della politica italiana, può essere interpretata come una sorta di schiaffo morale tanto in confronto delle anacronistiche rivendicazioni della sinistra radicale, quanto verso le dissertazioni sulla “politica lieve” elaborate dai teorici del “ma-anchismo” veltroniano, impegnati da oltre un anno nella celebrazione del tramonto di quelle stesse grandi ideologie di cui invece proprio la vittoria di Zapatero sembra confermare l’assoluta attualità.
Descrivendo se stesso come “riformista, ma non di sinistra”, l’attuale Sindaco di Roma ha espressamente rinunciato ad assumere il ruolo di Zapatero italiano, per calarsi totalmente nella difficile condizione di mediatore tra il laicismo illuminato di Pigi Odifreddi e l’integralismo manicheo di Paola Binetti, di punto di equilibrio tra la visione solidarsitica di Paolo Nerozzi e l’efficientismo ultraconservatore dell’ex irredentista Calearo. Tuttavia, di fronte ad un Partito Democratico destinato a tenere fede (coerentemente con quanto affermato da Marco Follini in occasione delle primarie del 14 ottobre) alla propria vocazione di “forza di centro che guarda a sinistra” e ad una Sinistra Arcobaleno che, configurandosi alla lunga come una sorta di Rifondazione allargata, appare rassegnata alla triste condizione di realtà di eterna opposizione, un’altra sfida impossibile attende i progressisti italiani all’indomani della ormai prossima tornata elettorale: la sfida diretta alla costruzione di una sinistra di governo in grado, al pari del PSOE, di restituire al suo popolo quell’entusiasmo e quel desiderio di partecipazione affogato in questi anni dalla delusione nascente dalla sopravvenuta incapacità dei partiti di assecondare le istanze provenienti da vari settori della società civile. Insomma, la ricerca dello Zapatero italiano, forse, deve ancora cominciare.
- promemoria per una Sinistra di Governo -
Nel commentare la straordinaria affermazione riportata da Zapatero in occasione delle elezioni politiche spagnole, Walter Veltroni ha osservato come tanto il successo del candidato del PSOE quanto i consensi ottenuti da Obama nelle primarie del Missisipi costituirebbero due segnali indicativi del fatto che, in Europa e nel Mondo, “spira un vento nuovo”: l’attuale stagione politica sarebbe infatti caratterizzata da un trend favorevole alle forze che afferiscono all’area riformista e socialdemocratica, di cui anche il PD si sente parte integrante.
Tuttavia, le (in massima parte condivisibili) argomentazioni del segretario del Partito Democratico lasciano irrisolti tre interrogativi fondamentali: su quali punti di contatto si regge il teorema volto a porre sullo stesso piano realtà, tra loro diverse per cultura e tradizione, come quella dei riformisti italiani, dei socialisti spagnoli e dei democratici statunitensi? Su quali presupposti Zapatero ha costruito la sua vittoria? E soprattutto, a quale tra i tanti presunti leaders operanti nel magmatico panorama della nostra “area democratica” può essere ragionevolmente attribuita la pesante etichetta di “Zapatero italiano”?
Individuando nel secondo dei tre quesiti appena prospettati il momento iniziale della nostra riflessione, devono essere integralmente condivise le conclusioni a cui è pervenuto Donald Sassoon (uno dei massimi studiosi della storia della sinistra europea) nella sua ultima intervista rilasciata a “L’Unità”: Zapatero ha vinto perché, nell’asfittico contesto del socialismo europeo, non ha ancora perso la capacità di proporre un’idea di politica imperniata sulla felice combinazione tra l’entusiasmo della militanza e l’efficienza propria di una concreta strategia di cambiamento, di trasmettere agli elettori quell’entusiasmo per il confronto democratico che i sostenitori della sinistra italiana sembrano avere smarrito da tempo.
In altre parole, Zapatero ha vinto perché è riuscito a proporre se stesso come l’espressione di una moderna “sinistra di governo”: l’immediato ritiro del contingente militare impegnato nel conflitto iracheno non ha infatti impedito l’elaborazione di una politica estera fortemente ispirata ai principi dell’europeismo e dell’atlantismo; le importanti riforme in tema di diritti civili e pari opportunità sono state accompagnate da misure rigorose dirette a reprimere il fenomeno del terrorismo separatista; alla crescita economica ha fatto seguito l’attuazione di un disegno volto ad affrancare il sistema radio-televisivo pubblico dal controllo dei partiti.
Proprio la qualificazione dei socialisti spagnoli come espressione di una “sinistra di governo” rappresenta la migliore risposta agli altri due interrogativi in precedenza formulati: posto infatti che la svolta progressista tratteggiata da Obama non deve al momento essere considerata idonea ad obliterare tout court le distanze che storicamente intercorrono tra i democratici americani e le forze progressiste europee, l’affermazione del PSOE, analizzata attraverso la lente della crisi della politica italiana, può essere interpretata come una sorta di schiaffo morale tanto in confronto delle anacronistiche rivendicazioni della sinistra radicale, quanto verso le dissertazioni sulla “politica lieve” elaborate dai teorici del “ma-anchismo” veltroniano, impegnati da oltre un anno nella celebrazione del tramonto di quelle stesse grandi ideologie di cui invece proprio la vittoria di Zapatero sembra confermare l’assoluta attualità.
Descrivendo se stesso come “riformista, ma non di sinistra”, l’attuale Sindaco di Roma ha espressamente rinunciato ad assumere il ruolo di Zapatero italiano, per calarsi totalmente nella difficile condizione di mediatore tra il laicismo illuminato di Pigi Odifreddi e l’integralismo manicheo di Paola Binetti, di punto di equilibrio tra la visione solidarsitica di Paolo Nerozzi e l’efficientismo ultraconservatore dell’ex irredentista Calearo. Tuttavia, di fronte ad un Partito Democratico destinato a tenere fede (coerentemente con quanto affermato da Marco Follini in occasione delle primarie del 14 ottobre) alla propria vocazione di “forza di centro che guarda a sinistra” e ad una Sinistra Arcobaleno che, configurandosi alla lunga come una sorta di Rifondazione allargata, appare rassegnata alla triste condizione di realtà di eterna opposizione, un’altra sfida impossibile attende i progressisti italiani all’indomani della ormai prossima tornata elettorale: la sfida diretta alla costruzione di una sinistra di governo in grado, al pari del PSOE, di restituire al suo popolo quell’entusiasmo e quel desiderio di partecipazione affogato in questi anni dalla delusione nascente dalla sopravvenuta incapacità dei partiti di assecondare le istanze provenienti da vari settori della società civile. Insomma, la ricerca dello Zapatero italiano, forse, deve ancora cominciare.
Carlo Dore jr.