IL LUNGO INVERNO DELLA SINISTRA ITALIANA:
CRISI “DEI” PARTITI O CRISI “NEI PARTITI”?
I due bellissimi articoli di Emanuele Macaluso e Marc Lazar, pubblicati rispettivamente su “La Stampa” e “La Repubblica”, hanno riproposto al centro del dibattito politico il tema della crisi della sinistra europea, crisi confermata – con specifico riferimento alla realtà italiana – tanto dalle vicende che hanno preceduto l’ascesa di Paolo Ferrero alla segreteria di Rifondazione Comunista quando, soprattutto, dalle tensioni che ormai da mesi lacerano il neonato PD.
Mentre i vertici nazionali del nuovo partito già si interrogano sulla capacità di Veltroni di ricostruire un centro-sinistra in grado di rappresentare una concreta alternativa di governo allo strapotere del Caimano, le varie realtà locali sono il teatro di un perenne scontro di potere tra presunti leaders dal discutibile peso politico, tutti impegnati in una continua ricerca di spazi e visibilità. E così, mentre non accenna a placarsi la polemica tra Sergio Chiamparino, Mercedes Bresso e i vertici dei democratici piemontesi, la grottesca contesa in atto in Sardegna tra i sostenitori di Renato Soru e gli eterni oppositori del Governatore uscente (contesa scandita dallo scizofrenico susseguirsi di assemblee ferragostane, mozioni di sfiducia, segretari reali e virtuali, carte bollate, teste nel frigo e – c’è da scommetterci – travasi di bile) sembra avere già condannato l’attuale coalizione di governo ad una rovinosa sconfitta in occasione delle Regionali del 2009.
Tuttavia, oltre a manifestare il proprio sdegno verso il presente status quo minacciando di disertare in massa le urne, l’elettorato progressista ha il dovere di interrogarsi su quali siano le cause di questa irreversibile situazione di crisi, di dedicarsi cioè alla ricerca dei fattori scatenanti che stanno alla base del lungo inverno della sinistra italiana. Preliminarmente, si potrebbe ipotizzare che le difficoltà evidenziate in questa particolare fase storica dalle forze riformiste in Italia sarebbe semplicemente un riflesso della congiuntura negativa cui risultano soggetti tutti i principali partiti che, direttamente o indirettamente, afferiscono all’area del socialismo europeo, i quali – con l’unica eccezione del PSOE – faticano a contenere l’onda moderata che attualmente attraversa il Vecchio Continente.
Tuttavia, la situazione italiana presenta, a mio sommesso avviso, almeno due ragioni di specificità rispetto alla crisi della Gauche descritta da Marc Lazar ed al “settembre nero” sui stanno andando incontro i laburisti di Gordon Brown. In primo luogo, mentre i socialisti francesi ed il Labour Party sono alle prese con un problema “politico” nel senso più alto del termine (si pensi al dibattito apertosi all’interno del PSF all’indomani della sconfitta elettorale del 2007 o alla emorragia di consensi subita dal Labour a causa delle scelte di politica estera assunte da Tony Blair nell’ultima fase del suo mandato), l’attività politica all’interno del PD sembra ormai esaurirsi in una mera questione di leadership, con Veltroni costretto a dare fondo alla sua nota capacità di comunicatore per compensare la congenita mancanza di programmi chiari e di proposte incisive sulle grandi questioni di rilevanza nazionale propria di un partito non in grado – in quanto privo di canali di comunicazione con la società civile – di recepire le istanze provenienti dalla parte migliore del suo elettorato.
In secondo luogo, se Zapatero, Segolene Royal e Gordon Brown sono chiamati a competere con avversari del peso politico di Rajoy, Sarkozy o David Cameron (e cioè con dei conservatori autentici, capaci di declinare una proposta di governo degna di tale nome), i democratici italiani devono confrontarsi più semplicemente con Berlusconi, con un leader di celluloide dallo svarione facile e dalle risorse economiche infinite, fermamente convinto di poter applicare al Paese le dinamiche sbrigative e grossolane proprie del capitalismo nato negli anni della “Milano da bere”.
E allora, riprendendo il quesito inizialmente prospettato, da dove nasce questa crisi? Quali fattori spingono il centro-sinistra verso le secche di una lunghissima stagione di opposizione, pure in un Paese caratterizzato da sempre crescenti sacche di povertà e da una pressoché totale mancanza di giustizia sociale? La risposta ad un simile interrogativo risulta drammatica nella sua semplicità: questa crisi nasce dalla tendenza a trasformare in crisi “dei” partiti – intesi come strutture di partecipazione dei cittadini alla vita politica della nazione – una crisi che viveva “nei” partiti, involgendone a tutti i livelli i principali gruppi di comando.
Allevata da Berlinguer per gestire la fase conclusiva della transizione dall’eurocomunismo al socialismo del XXI secolo, la classe dirigente composta dai vari D’Alema, Fassino, Veltroni e Mussi aveva sostanzialmente completato la sua missione con la stagione della trasformazione del PCI in PDS, con l’esperienza dell’Ulivo e con l’entusiasmante vittoria del 1996. Una volta insidiatasi al governo del Paese, la “giovane guardia” dei colonnelli berlingueriani era chiamata a realizzare un effettivo rinnovamento degli apparati del partito, favorendo – anche attraverso una maggiore apertura alla società civile – quel ricambio generazionale necessario per accreditare l’allora PDS come una forza in grado di rappresentare i progressisti italiani all’alba del 2000.
Ma sulle esigenze di rinnovamento ha alla lunga prevalso una logica fatalmente improntata all’autoconservazione: la logica diretta a cambiare il partito per non cambiare il gruppo dirigente, stabile nella sua composizione malgrado le sconfitte elettorali del 1999, del 2000 e del 2001. E’ questa logica di autoconservazione che ha ispirato il passaggio dal PDS ai DS, allorquando quello che era stato il partito di Berlinguer giunse ad aprire le sue porte ad un agguerrito drappello di reduci del craxismo, rimasti senza casa dopo il ciclone di Tangentopoli; e sempre alla luce di questa logica di autoconservazione va letta la creazione del PD, ultimo atto di una lunga fase di deberlinguerizzazione dei post-comunisti, rivelatisi persino disposti a sacrificare sull’altare della politica lieve, dei “ma anche”, della continua ricerca del dialogo con un interlocutore impresentabile quella “cultura della diversità” su cui si fondava la questione morale posta dall’indimenticabile segretario sassarese negli ultimi anni della sua vita.
Tutto ciò premesso, se da un lato la dissoluzione della Quercia ha privato il centro-sinistra dell’unica forza in grado di orientare in senso autenticamente riformista la strategia di una coalizione allo sbando e di assicurare un minimo di equilibrio tra le rivendicazioni avanzate dai vari esponenti delle comunità territoriali, d’altro lato tutti i rappresentanti della “giovane guardia” a cui si è in precedenza fatto cenno sono riusciti a riposizionarsi nell’ambito del nuovo soggetto politico, del quale mirano ad ottenere il controllo ora attraverso i consueti accordi maturati nel chiuso delle segereterie, ora attraverso quelle lotte intestine che, dal Piemonte alla Sardegna, stanno contribuendo a consolidare ulteriormente la già notevole base di consenso di cui Berlusconi dispone.
Ora - mentre i partiti della c.d. sinistra radicale si sono dimostrati più interessati a risolvere il problema della collocazione del mausoleo di Lenin che ad intercettare il voto di quei tanti elettori che volevano rimanere a sinistra senza rinnegare la svolta della Bolognina – la domanda è: quando il lungo inverno della sinistra italiana troverà finalmente il suo epilogo? Come si esce dalla crisi a cui fanno riferimento Macaluso e Lazar?
Anche in questo caso, la risposta è drammaticamente semplice: la sinistra italiana uscirà dalle secche dell’opposizione quando, magari a seguito dell’ennesima sconfitta elettorale, la crisi “dei” partiti verrà infine introiettata “nei” partiti, consentendo al corpo elettorale di individuare (attraverso primarie davvero aperte alla società civile) al di fuori delle eterne oligarchie la classe dirigente che dovrà prendere il posto della “giovane guardia”, e di portare così a termine quel ricambio generazionale di cui già alla fine degli anni ’90 si avvertiva la necessità.
Insomma, se la notte, forse, sta per finire, l’alba comunque tarda ad arrivare.
Carlo Dore jr.
CRISI “DEI” PARTITI O CRISI “NEI PARTITI”?
I due bellissimi articoli di Emanuele Macaluso e Marc Lazar, pubblicati rispettivamente su “La Stampa” e “La Repubblica”, hanno riproposto al centro del dibattito politico il tema della crisi della sinistra europea, crisi confermata – con specifico riferimento alla realtà italiana – tanto dalle vicende che hanno preceduto l’ascesa di Paolo Ferrero alla segreteria di Rifondazione Comunista quando, soprattutto, dalle tensioni che ormai da mesi lacerano il neonato PD.
Mentre i vertici nazionali del nuovo partito già si interrogano sulla capacità di Veltroni di ricostruire un centro-sinistra in grado di rappresentare una concreta alternativa di governo allo strapotere del Caimano, le varie realtà locali sono il teatro di un perenne scontro di potere tra presunti leaders dal discutibile peso politico, tutti impegnati in una continua ricerca di spazi e visibilità. E così, mentre non accenna a placarsi la polemica tra Sergio Chiamparino, Mercedes Bresso e i vertici dei democratici piemontesi, la grottesca contesa in atto in Sardegna tra i sostenitori di Renato Soru e gli eterni oppositori del Governatore uscente (contesa scandita dallo scizofrenico susseguirsi di assemblee ferragostane, mozioni di sfiducia, segretari reali e virtuali, carte bollate, teste nel frigo e – c’è da scommetterci – travasi di bile) sembra avere già condannato l’attuale coalizione di governo ad una rovinosa sconfitta in occasione delle Regionali del 2009.
Tuttavia, oltre a manifestare il proprio sdegno verso il presente status quo minacciando di disertare in massa le urne, l’elettorato progressista ha il dovere di interrogarsi su quali siano le cause di questa irreversibile situazione di crisi, di dedicarsi cioè alla ricerca dei fattori scatenanti che stanno alla base del lungo inverno della sinistra italiana. Preliminarmente, si potrebbe ipotizzare che le difficoltà evidenziate in questa particolare fase storica dalle forze riformiste in Italia sarebbe semplicemente un riflesso della congiuntura negativa cui risultano soggetti tutti i principali partiti che, direttamente o indirettamente, afferiscono all’area del socialismo europeo, i quali – con l’unica eccezione del PSOE – faticano a contenere l’onda moderata che attualmente attraversa il Vecchio Continente.
Tuttavia, la situazione italiana presenta, a mio sommesso avviso, almeno due ragioni di specificità rispetto alla crisi della Gauche descritta da Marc Lazar ed al “settembre nero” sui stanno andando incontro i laburisti di Gordon Brown. In primo luogo, mentre i socialisti francesi ed il Labour Party sono alle prese con un problema “politico” nel senso più alto del termine (si pensi al dibattito apertosi all’interno del PSF all’indomani della sconfitta elettorale del 2007 o alla emorragia di consensi subita dal Labour a causa delle scelte di politica estera assunte da Tony Blair nell’ultima fase del suo mandato), l’attività politica all’interno del PD sembra ormai esaurirsi in una mera questione di leadership, con Veltroni costretto a dare fondo alla sua nota capacità di comunicatore per compensare la congenita mancanza di programmi chiari e di proposte incisive sulle grandi questioni di rilevanza nazionale propria di un partito non in grado – in quanto privo di canali di comunicazione con la società civile – di recepire le istanze provenienti dalla parte migliore del suo elettorato.
In secondo luogo, se Zapatero, Segolene Royal e Gordon Brown sono chiamati a competere con avversari del peso politico di Rajoy, Sarkozy o David Cameron (e cioè con dei conservatori autentici, capaci di declinare una proposta di governo degna di tale nome), i democratici italiani devono confrontarsi più semplicemente con Berlusconi, con un leader di celluloide dallo svarione facile e dalle risorse economiche infinite, fermamente convinto di poter applicare al Paese le dinamiche sbrigative e grossolane proprie del capitalismo nato negli anni della “Milano da bere”.
E allora, riprendendo il quesito inizialmente prospettato, da dove nasce questa crisi? Quali fattori spingono il centro-sinistra verso le secche di una lunghissima stagione di opposizione, pure in un Paese caratterizzato da sempre crescenti sacche di povertà e da una pressoché totale mancanza di giustizia sociale? La risposta ad un simile interrogativo risulta drammatica nella sua semplicità: questa crisi nasce dalla tendenza a trasformare in crisi “dei” partiti – intesi come strutture di partecipazione dei cittadini alla vita politica della nazione – una crisi che viveva “nei” partiti, involgendone a tutti i livelli i principali gruppi di comando.
Allevata da Berlinguer per gestire la fase conclusiva della transizione dall’eurocomunismo al socialismo del XXI secolo, la classe dirigente composta dai vari D’Alema, Fassino, Veltroni e Mussi aveva sostanzialmente completato la sua missione con la stagione della trasformazione del PCI in PDS, con l’esperienza dell’Ulivo e con l’entusiasmante vittoria del 1996. Una volta insidiatasi al governo del Paese, la “giovane guardia” dei colonnelli berlingueriani era chiamata a realizzare un effettivo rinnovamento degli apparati del partito, favorendo – anche attraverso una maggiore apertura alla società civile – quel ricambio generazionale necessario per accreditare l’allora PDS come una forza in grado di rappresentare i progressisti italiani all’alba del 2000.
Ma sulle esigenze di rinnovamento ha alla lunga prevalso una logica fatalmente improntata all’autoconservazione: la logica diretta a cambiare il partito per non cambiare il gruppo dirigente, stabile nella sua composizione malgrado le sconfitte elettorali del 1999, del 2000 e del 2001. E’ questa logica di autoconservazione che ha ispirato il passaggio dal PDS ai DS, allorquando quello che era stato il partito di Berlinguer giunse ad aprire le sue porte ad un agguerrito drappello di reduci del craxismo, rimasti senza casa dopo il ciclone di Tangentopoli; e sempre alla luce di questa logica di autoconservazione va letta la creazione del PD, ultimo atto di una lunga fase di deberlinguerizzazione dei post-comunisti, rivelatisi persino disposti a sacrificare sull’altare della politica lieve, dei “ma anche”, della continua ricerca del dialogo con un interlocutore impresentabile quella “cultura della diversità” su cui si fondava la questione morale posta dall’indimenticabile segretario sassarese negli ultimi anni della sua vita.
Tutto ciò premesso, se da un lato la dissoluzione della Quercia ha privato il centro-sinistra dell’unica forza in grado di orientare in senso autenticamente riformista la strategia di una coalizione allo sbando e di assicurare un minimo di equilibrio tra le rivendicazioni avanzate dai vari esponenti delle comunità territoriali, d’altro lato tutti i rappresentanti della “giovane guardia” a cui si è in precedenza fatto cenno sono riusciti a riposizionarsi nell’ambito del nuovo soggetto politico, del quale mirano ad ottenere il controllo ora attraverso i consueti accordi maturati nel chiuso delle segereterie, ora attraverso quelle lotte intestine che, dal Piemonte alla Sardegna, stanno contribuendo a consolidare ulteriormente la già notevole base di consenso di cui Berlusconi dispone.
Ora - mentre i partiti della c.d. sinistra radicale si sono dimostrati più interessati a risolvere il problema della collocazione del mausoleo di Lenin che ad intercettare il voto di quei tanti elettori che volevano rimanere a sinistra senza rinnegare la svolta della Bolognina – la domanda è: quando il lungo inverno della sinistra italiana troverà finalmente il suo epilogo? Come si esce dalla crisi a cui fanno riferimento Macaluso e Lazar?
Anche in questo caso, la risposta è drammaticamente semplice: la sinistra italiana uscirà dalle secche dell’opposizione quando, magari a seguito dell’ennesima sconfitta elettorale, la crisi “dei” partiti verrà infine introiettata “nei” partiti, consentendo al corpo elettorale di individuare (attraverso primarie davvero aperte alla società civile) al di fuori delle eterne oligarchie la classe dirigente che dovrà prendere il posto della “giovane guardia”, e di portare così a termine quel ricambio generazionale di cui già alla fine degli anni ’90 si avvertiva la necessità.
Insomma, se la notte, forse, sta per finire, l’alba comunque tarda ad arrivare.
Carlo Dore jr.
1 commento:
caro dore,
ho scritto per un certo tempo per il sito www.megachip.info e l'ho fatto al tempo di quest'ultimo governo Prodi. in molti articoli ho avvisato che:
-la sinistra è una.
- se ci dividiamo lasciamo la destra e la sua orribile mentalità padrona del paese. Ho avuto anche una polemica con Giulietto Chiesa, ho anche dovuto vedere Turigliatto votare in sintonia con Storace e Schifani.
-adesso molti della sinistra vogliono consegnare anche la Sardegna al padrone di Pili, Aritzu ecc.
non c'e' proprio modo di evitarlo?
Angelo Aquilino
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