IL CAVALIERE E LA GIUSTIZIA: QUANDO I FATTI HANNO LA TESTA DURA…
Intervenendo lo scorso martedì in occasione del meeting organizzato presso “La fiera del tessile” di Milano, il Presidente Berlusconi ha scagliato un nuovo, violento attacco alle procure di Milano e Palermo, colpevoli, a suo dire, di utilizzare i soldi dei cittadini per cospirare contro chi lavora per il bene del Paese, continuando ad indagare su fatti “del ’92, del ’93 e del ‘94”.
Le parole del Premier - puntualmente riprese dalle successive dichiarazioni di Renato Schiffani, volte a stigmatizzare il comportamento di quei magistrati che persistono nel “riproporre teoremi politici attraverso l’evocazione di fantasmi” – si inquadrano perfettamente nella ben nota corrente di pensiero secondo la quale, dall’inizio degli anni ’90, sarebbe in atto una sorta di offensiva giudiziaria nei confronti di una parte politica (identificabile ora nelle varie componenti del Pentapartito su cui reggevano i vari governi succedutisi nella fase conclusiva della Prima Repubblica, ora nell’attuale maggioranza di governo e nel leader che la guida), diretta a sovvertire a colpi di avvisi di garanzia l’inequivocabile responso del corpo elettorale.
Così ragionando, Tangentopoli e le inchieste riferite ai rapporti tra mafia e politica vengono sistematicamente trasformate in strumentali aggressioni verso quella classe dirigente capace di garantire per oltre cinquant’anni la stabilità democratica di un Paese sottoposto alla minaccia filo-sovietica; il sistema di corruzione istituzionalizzata in cui è affogata l’epopea del CAF si riduce ad una mera invenzione di alcune Toghe impazzite; lo stesso Craxi viene trasversalmente incensato come un Padre della Patria costretto all’esilio dalla furia giustizialista di un manipolo di magistrati militanti; le tante leggi ad personam utili ad assicurare l’impunità del Presidente del Consiglio appaiono come l’ovvia reazione messa in atto dalla maggioranza governativa per difendersi dalle manovre occulte dei “Procuratori di sinistra”.
Ora - senza voler in questa sede rimarcare per l’ennesima volta la profonda incompatibilità che esiste tra le normali logiche democratiche ed una strategia di governo imperniata sulla radicale ablazione del principio della separazione dei poteri - ci limitiamo a rilevare come l’ossessione berlusconiana della “intifada giudiziaria”, lungi da potersi considerare supportata da apprezzabili riscontri oggettivi, rappresenta soltanto un aspetto di quella più complessa opera di modificazione della realtà che il Cavaliere propone all’opinione pubblica italiana da quindici anni a questa parte. Non a caso, siffatta ossessione si fonda sulla costante alterazione di alcuni dati di fatto: le condanne non esistono, le sentenze non si leggono, le pronunzie che attestano l’avvenuta estinzione per prescrizione di un reato comunque commesso vengono trasformate in assoluzioni con formula piena.
Qualche esempio: dei 1322 processi riconducibili a quel colossale fenomeno di connessioni politico-criminali che è stato Tangentopoli, solo 177 si sono conclusi con l’assoluzione dell’imputato nel merito della vicenda. Se poi si considera che, alle 661 condanne intervenute al termine del dibattimento, devono aggiungersi gli oltre 600 procedimenti definiti a seguito del patteggiamento, è facile comprendere come le conclusioni a cui erano pervenute le indagini svolte dal pool di Borrelli e D’Ambrosio, una volta superata la prova del contraddittorio, hanno in massima parte acquisito il valore di verità giudiziaria.
Non basta: la sentenza della Corte d’Appello di Palermo (poi confermata in toto dalla Cassazione) che ha assolto il senatore Andreotti dall’accusa di associazione mafiosa – sentenza individuata da più parti come la definitiva conferma del fallimento delle inchieste condotte da Caselli attraverso l’uso “spregiudicato” dei collaboratori di giustizia – in verità specificava come (con riferimento ai fatti verificatisi fino alla primavera del 1980) gli elementi a carico dell’ex Presidente del Consiglio confermavano l’effettiva consumazione dei reati oggetto dell’imputazione, dei quali però veniva rilevata l’intervenuta prescrizione. In altre parole, con questa pronuncia i Giudici si sono guardati bene dal “rigettare il teorema dell’accusa”: essi hanno in realtà stabilito che il trascorrere del tempo aveva reso l’imputato non punibile per un reato di cui comunque era stata accertata la sussistenza.
Questi sono i fatti, e – come hanno acutamente osservato lo stesso Gian Carlo Caselli e Livio Pepino nel loro pamphlet dedicato “Ad un cittadino che non crede nella giustizia” - «i fatti hanno la testa dura», e confermano che tanto Tangentopoli quanto i processi collegati alle stragi di Mafia del 1992 non rappresentano «una stagione di persecuzioni (o l’anticamera di una stagione siffatta), ma il doveroso dispiegarsi del principio di obbligatorietà dell’azione penale e di un controllo di legalità diffuso».
I fatti hanno la testa dura, e qualche volta la forza dei fatti finisce col prevalere su quel complesso di omissioni, manipolazioni e mezze verità a cui il Presidente del Consiglio fa costantemente ricorso per consolidare il suo consenso personale nell’ambito di un Paese che sembra avere, giorno dopo giorno, rinunciato alla propria capacità di indignarsi.
Carlo Dore jr.
Intervenendo lo scorso martedì in occasione del meeting organizzato presso “La fiera del tessile” di Milano, il Presidente Berlusconi ha scagliato un nuovo, violento attacco alle procure di Milano e Palermo, colpevoli, a suo dire, di utilizzare i soldi dei cittadini per cospirare contro chi lavora per il bene del Paese, continuando ad indagare su fatti “del ’92, del ’93 e del ‘94”.
Le parole del Premier - puntualmente riprese dalle successive dichiarazioni di Renato Schiffani, volte a stigmatizzare il comportamento di quei magistrati che persistono nel “riproporre teoremi politici attraverso l’evocazione di fantasmi” – si inquadrano perfettamente nella ben nota corrente di pensiero secondo la quale, dall’inizio degli anni ’90, sarebbe in atto una sorta di offensiva giudiziaria nei confronti di una parte politica (identificabile ora nelle varie componenti del Pentapartito su cui reggevano i vari governi succedutisi nella fase conclusiva della Prima Repubblica, ora nell’attuale maggioranza di governo e nel leader che la guida), diretta a sovvertire a colpi di avvisi di garanzia l’inequivocabile responso del corpo elettorale.
Così ragionando, Tangentopoli e le inchieste riferite ai rapporti tra mafia e politica vengono sistematicamente trasformate in strumentali aggressioni verso quella classe dirigente capace di garantire per oltre cinquant’anni la stabilità democratica di un Paese sottoposto alla minaccia filo-sovietica; il sistema di corruzione istituzionalizzata in cui è affogata l’epopea del CAF si riduce ad una mera invenzione di alcune Toghe impazzite; lo stesso Craxi viene trasversalmente incensato come un Padre della Patria costretto all’esilio dalla furia giustizialista di un manipolo di magistrati militanti; le tante leggi ad personam utili ad assicurare l’impunità del Presidente del Consiglio appaiono come l’ovvia reazione messa in atto dalla maggioranza governativa per difendersi dalle manovre occulte dei “Procuratori di sinistra”.
Ora - senza voler in questa sede rimarcare per l’ennesima volta la profonda incompatibilità che esiste tra le normali logiche democratiche ed una strategia di governo imperniata sulla radicale ablazione del principio della separazione dei poteri - ci limitiamo a rilevare come l’ossessione berlusconiana della “intifada giudiziaria”, lungi da potersi considerare supportata da apprezzabili riscontri oggettivi, rappresenta soltanto un aspetto di quella più complessa opera di modificazione della realtà che il Cavaliere propone all’opinione pubblica italiana da quindici anni a questa parte. Non a caso, siffatta ossessione si fonda sulla costante alterazione di alcuni dati di fatto: le condanne non esistono, le sentenze non si leggono, le pronunzie che attestano l’avvenuta estinzione per prescrizione di un reato comunque commesso vengono trasformate in assoluzioni con formula piena.
Qualche esempio: dei 1322 processi riconducibili a quel colossale fenomeno di connessioni politico-criminali che è stato Tangentopoli, solo 177 si sono conclusi con l’assoluzione dell’imputato nel merito della vicenda. Se poi si considera che, alle 661 condanne intervenute al termine del dibattimento, devono aggiungersi gli oltre 600 procedimenti definiti a seguito del patteggiamento, è facile comprendere come le conclusioni a cui erano pervenute le indagini svolte dal pool di Borrelli e D’Ambrosio, una volta superata la prova del contraddittorio, hanno in massima parte acquisito il valore di verità giudiziaria.
Non basta: la sentenza della Corte d’Appello di Palermo (poi confermata in toto dalla Cassazione) che ha assolto il senatore Andreotti dall’accusa di associazione mafiosa – sentenza individuata da più parti come la definitiva conferma del fallimento delle inchieste condotte da Caselli attraverso l’uso “spregiudicato” dei collaboratori di giustizia – in verità specificava come (con riferimento ai fatti verificatisi fino alla primavera del 1980) gli elementi a carico dell’ex Presidente del Consiglio confermavano l’effettiva consumazione dei reati oggetto dell’imputazione, dei quali però veniva rilevata l’intervenuta prescrizione. In altre parole, con questa pronuncia i Giudici si sono guardati bene dal “rigettare il teorema dell’accusa”: essi hanno in realtà stabilito che il trascorrere del tempo aveva reso l’imputato non punibile per un reato di cui comunque era stata accertata la sussistenza.
Questi sono i fatti, e – come hanno acutamente osservato lo stesso Gian Carlo Caselli e Livio Pepino nel loro pamphlet dedicato “Ad un cittadino che non crede nella giustizia” - «i fatti hanno la testa dura», e confermano che tanto Tangentopoli quanto i processi collegati alle stragi di Mafia del 1992 non rappresentano «una stagione di persecuzioni (o l’anticamera di una stagione siffatta), ma il doveroso dispiegarsi del principio di obbligatorietà dell’azione penale e di un controllo di legalità diffuso».
I fatti hanno la testa dura, e qualche volta la forza dei fatti finisce col prevalere su quel complesso di omissioni, manipolazioni e mezze verità a cui il Presidente del Consiglio fa costantemente ricorso per consolidare il suo consenso personale nell’ambito di un Paese che sembra avere, giorno dopo giorno, rinunciato alla propria capacità di indignarsi.
Carlo Dore jr.
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