LE TRE SFIDE DEL “POST-COMUNISTA” BERSANI
Contrariamente a quanto affermato da alcuni autorevoli commentatori, l’esito delle primarie che ha certificato l’ascesa di Pierluigi Bersani alla segreteria del Partito Democratico non può essere semplicemente interpretato come l’ennesima affermazione della forza degli apparati rispetto alle spinte innovatrici provenienti da determinati settori della società civile, come il momento conclusivo di una strategia sapientemente orchestrata dai signori delle tessere dall’alto delle stanze del potere.
Confermando l’orientamento espresso dagli iscritti in occasione dei congressi di circolo, gli oltre tre milioni di elettori che la scorsa domenica si sono messi in fila davanti ai seggi di tutta Italia hanno infatti voluto lanciare un messaggio politico difficilmente equivocabile: basta con il mito del partito liquido, equidistante tra lavoratori ed imprenditori; basta con l’ossessione del rinnovamento, cavalcata per coprire la mancanza di un progetto di ampio respiro. Il PD deve recuperare la propria dimensione di “partito di massa”, di partito del lavoro capace di costruire sulla base delle istanze che provengono dalle classi sociali più deboli la proposta di governo alternativa al modello gheddafiano con cui Berlusconi sta tenendo sotto scacco il Paese.
Per impartire la tanto attesa “svolta a sinistra” alla strategia del principale partito dell’opposizione democratica, il popolo delle primarie ha scelto di dare fiducia all’approccio concreto ed antimediatico proprio del “post-comunista” Bersani, del dirigente che – per origini, per formazione, per mentalità – appare più vicino al sistema di valori da cui è costituita la migliore tradizione della sinistra italiana.
Tuttavia, sarebbe errato ritenere che, con il voto di domenica, sia pervenuta nelle mani del neo – segretario un’ennesima delega in bianco. No: archiviando una volta per sempre la fallimentare parentesi del veltronismo, della logica del “ma – anche” elevata ad elemento-cardine del programma elettorale, della italianizzazione stucchevole ed un po’ pacchiana degli slogan di Obama, la base ha posto l’ex ministro dello sviluppo economico dinanzi a tre sfide centrali, dal cui superamento dipendono in massima parte le possibilità del centro-sinistra di riuscire a contrastare lo strapotere berlusconiano.
In primo luogo, il definitivo superamento del dogma dell’autosufficienza e della vocazione maggioritaria richiede la costruzione – attraverso la preventiva elaborazione di una piattaforma programmatica condivisa - di un’ampia alleanza progressista, in grado di intercettare anche il contributo delle associazioni e dei movimenti operanti sul territorio; richiede, in altri termini, la riproposizione ed il rafforzamento dell’idea del grande Ulivo formulata da Romano Prodi, già rivelatasi vincente nel non lontano 1996.
In secondo luogo, l’esistenza delle troppe divisioni tra i vari gruppi di potere che si sono finora contesi la guida del partito nell’ambito delle varie realtà locali – divisioni opportunamente indicate da Ilvo Diamanti come una delle principali cause della emorragia di consensi subita dal PD nel corso dell’ultimo anno - impone la realizzazione di una struttura organizzativa stabile imperniata sull’esistenza di regole certe, presupposto indispensabile per porre un freno all’imperversare dei famosi “cacicchi” a cui faceva riferimento Gustavo Zagrebelsky nella sua famosa intervista rilasciata a “La Repubblica” nel dicembre del 2008.
Infine, la vicenda che ha coinvolto Piero Marrazzo – costretto alle dimissioni dai principali dirigenti nazionali proprio per disinnescare la reazione potenzialmente dirompente che l’elettorato avrebbe opposto ad uno scandalo che rendeva di fatto indifendibile l’ex Governatore – ha confermato una volta di più quanto il popolo progressista ancora creda nella questione morale, in una concezione etica della politica lontana anni – luce dal clima da Basso Impero che da anni si respira nei paraggi di Palazzo Grazioli.
Ebbene, proprio a Bersani – fino a ieri frettolosamente definito da avversari ed eterni detrattori come il passatista, il conservatore, l’uomo dell’apparato, il mandatario dei signori delle tessere – spetta ora il difficile compito di ridare fiato alla cultura berlingueriana della partito inteso non come veicolo per il potere ma come strumento di attuazione dell’interesse generale, favorendo il graduale ricambio generazionale nell’ambito di certi settori di una classe dirigente che di questa cultura non viene più percepita come autentica ed integrale espressione.
Queste sono le grandi sfide che gli elettori delle primarie chiedono al nuovo segretario di affrontare, per traghettare il Paese fuori dalle sabbie mobili dell’autoritarismo di una destra forcaiola ed amorale. Tre milioni di voti per vincere tre sfide decisive: le tre sfide del “post-comunista” Bersani.
Carlo Dore jr.
Contrariamente a quanto affermato da alcuni autorevoli commentatori, l’esito delle primarie che ha certificato l’ascesa di Pierluigi Bersani alla segreteria del Partito Democratico non può essere semplicemente interpretato come l’ennesima affermazione della forza degli apparati rispetto alle spinte innovatrici provenienti da determinati settori della società civile, come il momento conclusivo di una strategia sapientemente orchestrata dai signori delle tessere dall’alto delle stanze del potere.
Confermando l’orientamento espresso dagli iscritti in occasione dei congressi di circolo, gli oltre tre milioni di elettori che la scorsa domenica si sono messi in fila davanti ai seggi di tutta Italia hanno infatti voluto lanciare un messaggio politico difficilmente equivocabile: basta con il mito del partito liquido, equidistante tra lavoratori ed imprenditori; basta con l’ossessione del rinnovamento, cavalcata per coprire la mancanza di un progetto di ampio respiro. Il PD deve recuperare la propria dimensione di “partito di massa”, di partito del lavoro capace di costruire sulla base delle istanze che provengono dalle classi sociali più deboli la proposta di governo alternativa al modello gheddafiano con cui Berlusconi sta tenendo sotto scacco il Paese.
Per impartire la tanto attesa “svolta a sinistra” alla strategia del principale partito dell’opposizione democratica, il popolo delle primarie ha scelto di dare fiducia all’approccio concreto ed antimediatico proprio del “post-comunista” Bersani, del dirigente che – per origini, per formazione, per mentalità – appare più vicino al sistema di valori da cui è costituita la migliore tradizione della sinistra italiana.
Tuttavia, sarebbe errato ritenere che, con il voto di domenica, sia pervenuta nelle mani del neo – segretario un’ennesima delega in bianco. No: archiviando una volta per sempre la fallimentare parentesi del veltronismo, della logica del “ma – anche” elevata ad elemento-cardine del programma elettorale, della italianizzazione stucchevole ed un po’ pacchiana degli slogan di Obama, la base ha posto l’ex ministro dello sviluppo economico dinanzi a tre sfide centrali, dal cui superamento dipendono in massima parte le possibilità del centro-sinistra di riuscire a contrastare lo strapotere berlusconiano.
In primo luogo, il definitivo superamento del dogma dell’autosufficienza e della vocazione maggioritaria richiede la costruzione – attraverso la preventiva elaborazione di una piattaforma programmatica condivisa - di un’ampia alleanza progressista, in grado di intercettare anche il contributo delle associazioni e dei movimenti operanti sul territorio; richiede, in altri termini, la riproposizione ed il rafforzamento dell’idea del grande Ulivo formulata da Romano Prodi, già rivelatasi vincente nel non lontano 1996.
In secondo luogo, l’esistenza delle troppe divisioni tra i vari gruppi di potere che si sono finora contesi la guida del partito nell’ambito delle varie realtà locali – divisioni opportunamente indicate da Ilvo Diamanti come una delle principali cause della emorragia di consensi subita dal PD nel corso dell’ultimo anno - impone la realizzazione di una struttura organizzativa stabile imperniata sull’esistenza di regole certe, presupposto indispensabile per porre un freno all’imperversare dei famosi “cacicchi” a cui faceva riferimento Gustavo Zagrebelsky nella sua famosa intervista rilasciata a “La Repubblica” nel dicembre del 2008.
Infine, la vicenda che ha coinvolto Piero Marrazzo – costretto alle dimissioni dai principali dirigenti nazionali proprio per disinnescare la reazione potenzialmente dirompente che l’elettorato avrebbe opposto ad uno scandalo che rendeva di fatto indifendibile l’ex Governatore – ha confermato una volta di più quanto il popolo progressista ancora creda nella questione morale, in una concezione etica della politica lontana anni – luce dal clima da Basso Impero che da anni si respira nei paraggi di Palazzo Grazioli.
Ebbene, proprio a Bersani – fino a ieri frettolosamente definito da avversari ed eterni detrattori come il passatista, il conservatore, l’uomo dell’apparato, il mandatario dei signori delle tessere – spetta ora il difficile compito di ridare fiato alla cultura berlingueriana della partito inteso non come veicolo per il potere ma come strumento di attuazione dell’interesse generale, favorendo il graduale ricambio generazionale nell’ambito di certi settori di una classe dirigente che di questa cultura non viene più percepita come autentica ed integrale espressione.
Queste sono le grandi sfide che gli elettori delle primarie chiedono al nuovo segretario di affrontare, per traghettare il Paese fuori dalle sabbie mobili dell’autoritarismo di una destra forcaiola ed amorale. Tre milioni di voti per vincere tre sfide decisive: le tre sfide del “post-comunista” Bersani.
Carlo Dore jr.
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