“IL NO-B. DAY E’ FINITO. ORA CHE FACCIAMO?”:
RICOSTRUIAMO IL RAPPORTO TRA I PARTITI E L’ITALIA CHE CREDE.
Mentre nelle piazze di tutta Italia rimbomba ancora l’eco delle manifestazioni collegate al “No-B. day”, un importante esponente del centro-sinistra sardo, attraverso la sua personale pagina web, domanda: “Il No-B. day è finito; ora che facciamo?” Premesso che le posizioni espresse da determinati uomini politici non scadono mai nella banalità, su questo interrogativo è necessario proporre una riflessione attenta, anche in considerazione del fatto che dall’iniziativa del 5 dicembre provengono almeno tre segnali importanti per il futuro della politica italiana.
Primo segnale: le tante persone che si sono riversate in Piazza San Giovanni rappresentano la migliore risposta alla favola, ossessivamente ripetuta a reti unificate dai vari sottufficiali del Cavaliere, del Paese appiattito sulla figura del Premier. L’Italia non risponde al modello di Paese tratteggiato dai pamphlet di Fede e Minzolini o dagli editoriali di Feltri e Belpietro; non si identifica passivamente nella politica dell’immunità teorizzata da Ghedini o nel separatismo rondista della Lega Nord.
Secondo segnale: c’è un’Italia che ancora crede. Crede nel bisogno di legalità gridato a tutta forza da Salvatore Borsellino e dai ragazzi di Corleone; crede nel modello di giustizia più volte declinato da magistrati democratici come Giancarlo Caselli, Gherardo Colombo o Antonio Ingroia; crede nel modello di democrazia delineato dalla Costituzione nata dalla Resistenza e dalla lotta partigiana, di cui Giorgio Bocca ha appassionatamente difeso il valore. Crede, in altre parole, che la prospettiva di realizzare un Paese diverso sia ancora configurabile.
Terzo segnale: c’è un’Italia che ancora chiede. Chiede di essere rappresentata adeguatamente da un ceto politico che fatica a proporsi come concreta alternativa allo strapotere berlusconiano; chiede di vedere le proprie istanze, le proprie idee, i propri valori trasformati in un razionale programma di governo da parte delle forze dell’opposizione democratica presenti nelle istituzioni.
La manifestazione di Piazza San Giovanni ha infatti confermato una volta di più l’esistenza di una frattura – forse ancora sanabile – tra partiti e “paese reale”, frattura cagionata dal fatto che i partiti del centro-sinistra hanno troppo spesso rinunciato a svolgere la loro naturale funzione di “punto di sutura” tra politica e società, ora cedendo alla logica del compromesso (come nel caso della Bicamerale o del “dialogo sulle riforme” rilanciato da Veltroni nel 1996), ora trasmettendo messaggi poco intellegibili che l’elettorato non è riuscito a metabolizzare (in questo senso, chiaro è il riferimento alle dichiarazioni di Enrico Letta sulla possibilità per il Presidente del Consiglio di difendersi non solo nel processo, ma anche dal processo).
Tutto ciò chiarito, è dunque possibile affrontare l’interrogativo da cui prende le mosse questa nostra analisi: il No-B. day è finito; ora che facciamo?. La risposta è: ricostruiamo. Forte della legittimazione ricevuta dal popolo delle primarie, Bersani può ignorare i richiami al “dialogo” ed alla “mediazione” talvolta proposti da alcuni settori del suo stesso gruppo dirigente, per dedicarsi alla costruzione di un partito finalmente capace di tradurre in proposte programmatiche l’indignazione che il popolo progressista ha accumulato nei confronti di una maggioranza di governo “a democrazia limitata”.
Il No-B. day è finito; ora che facciamo? C’è un’Italia che crede e che chiede. I partiti hanno il dovere di ascoltarla e di tentare di rappresentarla; di fare in modo che l’Italia dei Borsellino e dei ragazzi di Corleone, dei Caselli e dei Colombo, degli Ingroia e dei Bocca esca dalla condizione di minorità in cui si sente attualmente confinata; di impedire che di questa Italia resti solo l’eco, a rimbombare tra le colonne di una piazza vuota.
Carlo Dore jr.
RICOSTRUIAMO IL RAPPORTO TRA I PARTITI E L’ITALIA CHE CREDE.
Mentre nelle piazze di tutta Italia rimbomba ancora l’eco delle manifestazioni collegate al “No-B. day”, un importante esponente del centro-sinistra sardo, attraverso la sua personale pagina web, domanda: “Il No-B. day è finito; ora che facciamo?” Premesso che le posizioni espresse da determinati uomini politici non scadono mai nella banalità, su questo interrogativo è necessario proporre una riflessione attenta, anche in considerazione del fatto che dall’iniziativa del 5 dicembre provengono almeno tre segnali importanti per il futuro della politica italiana.
Primo segnale: le tante persone che si sono riversate in Piazza San Giovanni rappresentano la migliore risposta alla favola, ossessivamente ripetuta a reti unificate dai vari sottufficiali del Cavaliere, del Paese appiattito sulla figura del Premier. L’Italia non risponde al modello di Paese tratteggiato dai pamphlet di Fede e Minzolini o dagli editoriali di Feltri e Belpietro; non si identifica passivamente nella politica dell’immunità teorizzata da Ghedini o nel separatismo rondista della Lega Nord.
Secondo segnale: c’è un’Italia che ancora crede. Crede nel bisogno di legalità gridato a tutta forza da Salvatore Borsellino e dai ragazzi di Corleone; crede nel modello di giustizia più volte declinato da magistrati democratici come Giancarlo Caselli, Gherardo Colombo o Antonio Ingroia; crede nel modello di democrazia delineato dalla Costituzione nata dalla Resistenza e dalla lotta partigiana, di cui Giorgio Bocca ha appassionatamente difeso il valore. Crede, in altre parole, che la prospettiva di realizzare un Paese diverso sia ancora configurabile.
Terzo segnale: c’è un’Italia che ancora chiede. Chiede di essere rappresentata adeguatamente da un ceto politico che fatica a proporsi come concreta alternativa allo strapotere berlusconiano; chiede di vedere le proprie istanze, le proprie idee, i propri valori trasformati in un razionale programma di governo da parte delle forze dell’opposizione democratica presenti nelle istituzioni.
La manifestazione di Piazza San Giovanni ha infatti confermato una volta di più l’esistenza di una frattura – forse ancora sanabile – tra partiti e “paese reale”, frattura cagionata dal fatto che i partiti del centro-sinistra hanno troppo spesso rinunciato a svolgere la loro naturale funzione di “punto di sutura” tra politica e società, ora cedendo alla logica del compromesso (come nel caso della Bicamerale o del “dialogo sulle riforme” rilanciato da Veltroni nel 1996), ora trasmettendo messaggi poco intellegibili che l’elettorato non è riuscito a metabolizzare (in questo senso, chiaro è il riferimento alle dichiarazioni di Enrico Letta sulla possibilità per il Presidente del Consiglio di difendersi non solo nel processo, ma anche dal processo).
Tutto ciò chiarito, è dunque possibile affrontare l’interrogativo da cui prende le mosse questa nostra analisi: il No-B. day è finito; ora che facciamo?. La risposta è: ricostruiamo. Forte della legittimazione ricevuta dal popolo delle primarie, Bersani può ignorare i richiami al “dialogo” ed alla “mediazione” talvolta proposti da alcuni settori del suo stesso gruppo dirigente, per dedicarsi alla costruzione di un partito finalmente capace di tradurre in proposte programmatiche l’indignazione che il popolo progressista ha accumulato nei confronti di una maggioranza di governo “a democrazia limitata”.
Il No-B. day è finito; ora che facciamo? C’è un’Italia che crede e che chiede. I partiti hanno il dovere di ascoltarla e di tentare di rappresentarla; di fare in modo che l’Italia dei Borsellino e dei ragazzi di Corleone, dei Caselli e dei Colombo, degli Ingroia e dei Bocca esca dalla condizione di minorità in cui si sente attualmente confinata; di impedire che di questa Italia resti solo l’eco, a rimbombare tra le colonne di una piazza vuota.
Carlo Dore jr.
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