martedì, maggio 04, 2010



IL PD E LA GIUSTIZIA: LUCI E OMBRE DELLA “BOZZA ORLANDO”


In un lungo editoriale pubblicato sul “Foglio” lo scorso 9 aprile, Andrea Orlando ha tratteggiato quelle che dovrebbero essere le posizioni del Partito Democratico in ordine all’attualissimo e controverso tema della riforma della giustizia.

Premesso che la scelta di affrontare una materia di questa rilevanza proprio sulle colonne di un quotidiano da sempre in prima linea contro quelle che il centro-destra definisce “le frange politicizzate della magistratura” non può non destare più di una perplessità, l’articolo del responsabile per la giustizia della segreteria di Bersani impone comunque una riflessione approfondita, nel tentativo di individuare, tra le tante proposte avanzate dal parlamentare spezzino, quelle che possono considerarsi effettivamente idonee a risolvere i molteplici problemi della giustizia italiana.

In questo senso, mentre meritano assoluta ed incondizionata condivisione la denuncia delle troppe disfunzioni che caratterizzano il processo civile, la proposta di rivedere il sistema delle impugnazioni nel processo penale (restringendo drasticamente le maglie del ricorso per Cassazione) e l’intendimento di procedere ad una più razionale distribuzione degli uffici giudiziari, le aperture sulla “rimodulazione” del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale – da praticarsi “attraverso l’individuazione di priorità che non limitino l’indipendenza del PM - e sulla ridefinizione delle prerogative e dei criteri di composizione del CSM appaiono francamente poco comprensibili.

Posto infatti che il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 114 Cost. – il quale impone al Pubblico Ministero di indagare su tutte le notizie di reato da lui ricevute – va interpretato alla luce del più generale principio dell’eguaglianza formale consacrato nell’art. 3 della Carta Fondamentale, il superamento dell'azione penale obbligatoria potrebbe implicare l’assegnazione al Parlamento o, peggio ancora, al Governo della prerogativa di indicare i reati da perseguire con priorità. Allo stato delle cose, è fin troppo facile ipotizzare quale posizione finirebbero con l’occupare, nell’ambito di questa speciale graduatoria, i reati connessi alla c.d. criminalità economica e quelli contro la P. A.

Del pari, una compressione dell’indipendenza dell’autonomia dell’ordine giudiziario rispetto al potere politico farebbe inevitabilmente seguito ad una rivisitazione delle norme che disciplinano la composizione e le attribuzioni (con particolare riferimento alla materia disciplinare) del CSM, il quale, in questi anni, si è più volte dimostrato perfettamente in grado di assolvere alla funzione di organo di autogoverno delle toghe e di garante dell’indipendenza della Magistratura ad esso riconnessa dal nostro ordinamento costituzionale.

A ben vedere, dunque, le “aperture” di Orlando risultano caratterizzate da un duplice profilo di irrazionalità: da un lato, esse non sembrano funzionali ad assecondare le principali esigenze del cittadino che “chiede” giustizia, esigenze individuabili nella rapida attuazione dei mezzi di tutela, nell’applicazione di pene certe nei confronti degli autori dei reati, nell’efficiente impiego delle poche risorse di cui il sistema giudiziario dispone. D’altro lato, queste aperture si basano sull’artificiosa astrazione costituita dall’intendimento di “riformare la giustizia italiana nel modo più possibile condiviso”, a prescindere da Berlusconi, dai suoi processi da aggiustare, dalle sue vendette da consumare.

Ma in un Paese in cui il legislatore si è spesso trovato ad assumere la scomoda veste di principale avvocato difensore di alcuni imputati eccellenti, il principale partito di opposizione non può limitarsi ad indicare qualche pallido temperamento alle più irricevibili proposte di una maggioranza nell’ambito della quale la vox principis prevale da sempre sulla cultura della legittimità. Il PD è chiamato a delineare un modello di giustizia radicalmente antitetico rispetto a quello vagheggiato dal Presidente del Consiglio: un modello di giustizia imperniato proprio su quei principi dell’eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, dell’autonomia della Magistratura rispetto ad ogni altro potere, dell’obbligatorietà dell’azione penale troppo spesso messi in discussione da riformatori più o meno illuminati.

Un triste destino attende infatti il Paese in cui anche l’opposizione, per assecondare la necessità di “riforme il più possibile condivise”, finisce col conformarsi alla Voce del Principe, rinunciando – come correttamente ha osservato Gian Carlo Caselli – a differenziarsi in maniera netta dalla maggioranza politica contingente: quel Paese assisterà, presto o tardi, al declino della cultura della legittimità.

Carlo Dore jr.

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