Qualcuno, ai tempi del fascismo, lo chiamava
“il pretore rosso”. E non era, in realtà, né rosso né bigio: era soltanto una
coscienza tranquillamente fiera, non disposta a rinnegare la giustizia per fare
la volontà degli squadristi che invadevano le aule. Era semplicemente un
giudice giusto: e per questo lo chiamavano rosso (perché sempre, tra le tante
sofferenze che attendono il giudice giusto, vi è anche quella di sentirsi
accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio
della fazione contraria>>.
Chissà se le parole utilizzate da
Calamandrei per descrivere la figura di Aurelio Sansoni (il “pretore rosso” che
opponeva la forza del diritto alla protervia dei Moschettieri del Duce) hanno
sfiorato la mente di Antonio Ingroia mentre, nel presentare la sua lista di
“Rivoluzione civile”, avocava a sé il “primato dell’antimafia”, rivendicando il
monopolio assoluto dell’eredità morale di Falcone e Borsellino.
Abbandonato in tutta fretta - tra lo stupore di colleghi ed osservatori
internazionali - il prestigioso incarico affidatogli dall’ONU in Guatemala,
l’ex Procuratore di Palermo non ha risparmiato i riferimenti polemici al PD
(rilevando la scarsa incisività delle proposte elaborate dal partito di Bersani
in tema di legalità e lotta alla criminalità organizzata) e al neo-candidato
democratico Piero Grasso, asceso, a suo dire, al vertice della procura
nazionale antimafia grazie ad una legge “appositamente confezionata da Berlusconi
per sbarrare l’accesso alla superprocura” ad un candidato scomodo come
Giancarlo Caselli.
Insomma, le parole di Ingroia aprono
un nuovo fronte polemico all’interno della sinistra italiana, la quale si trova
ora impegnata in un imprevisto ed imprevedibile “derby dell’antimafia”, con il
consueto corollario di accuse, controaccuse, dubbi ed intrerrogativi proposti
da attivisti e militanti attraverso i giornali e i social network: è “più
antimafia” il PM che per primo ha svelato al Paese l’esistenza di una
trattativa tra Stato e Cosa nostra durante la stagione delle stragi, o il
Procuratore che ha condotto Provenzano alla sbarra? E’ “più antimafia” il
partito di Rosario Crocetta e Rita Borsellino, o il movimento in cui milita il
figlio di Pio La Torre? E soprattutto, chi, tra Ingroia e Grasso, è in grado di
rappresentare meglio l’ideale di legalità che ha animato la riscossa civica di
un Paese allo sbando, dopo gli attentati di Capaci e Via D'Amelio?
Lo scenario che fa seguito
all’impietoso “j’accuse” di Ingroia
risulta però denso di zone d’ombra, la cui esistenza risulta innegabile anche
per chi, in questi anni, del Partigiano della Costituzione ha sempre apprezzato
il coraggio e sostenuto le battaglie a difesa dei principi della Carta
Fondamentale. Si avverte infatti, vicino ed incombente, il pericolo che il tema
della lotta a Cosa Nostra venga degradato da grande questione nazionale a mera
bagarre da campagna elettorale, che l’icona di Falcone e Borsellino venga spesa
nell'ossessiva ricerca di un misero pugno di voti, che questo incomprensibile
"derby dell'antimafia" finisca col ridare persino fiato ai
trombettieri della destra berlusconiana, sempre pronti a etichettare i
brillanti risultati investigativi conseguiti dalla Procura di Palermo come
“pure strumentalizzazioni delle toghe politicizzate”.
Ecco allora tornare d’attualità il pensiero di
Calamandrei, dal quale forse si può ricavare il modello di antimafia a cui si
ispirerebbe “il giudice giusto”, qualora questi decidesse di affrontare il
problema della repressione del crimine organizzato dalla prospettiva del
legislatore. Così ragionando, infatti, anche l’antimafia non può considerarsi
“né rossa né bigia”, non costituisce materia manipolabile in ragione delle
esigenze di fazione. Essa impone a uomini della levatura di Grasso e Ingroia
l’onere di abbandonare la dimensione della polemica sterile per accedere a
quella, assai più nobile, dell’elaborazione costruttiva: di aprire, in altri
termini, un confronto sull'individuazione degli strumenti più idonei (riforma
del sistema delle impugnazioni; interruzione della prescrizione dopo il rinvio
a giudizio; innalzamento dei termini di prescrizione per i reati connessi alla
criminalità economica; regolamentazione del fenomeno dell’autoriciclaggio) per
contrastare efficacemente il fenomeno mafioso.
Dalla polemica alla proposta: il modello del
"giudice giusto" può dunque costituire un utile riferimento per
riportare i temi della legalità e della lotta al crimine organizzato al centro
del dibattito politico, interrompendo sul nascere il pericoloso "derby
dell'antimafia" che rischia di lacerare le varie anime della sinistra
italiana alla vigilia del voto.
Carlo
Dore jr.
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