La
curva discendente della parabola di Matteo il Rottamatore inizia nella notte
del 19 aprile del 2013, quando la mano lunga dei “centouno” soffoca la
candidatura di Prodi al Quirinale per sabotare il governo di cambiamento
proposto da Bersani quale alternativa alla melassa delle larghe intese con la
destra berlusconiana. Bersani sconfitto e ridotto al silenzio, le larghe intese
benedette da Napolitano come viatico delle grandi riforme, i “centouno” come base
di consenso per un congresso senza storia: Matteo non lo sapeva, ma aveva già
cominciato a auto-rottamarsi.
Leader divisivo e allergico ai
progetti politici di ampio respiro, alfiere sfrontato e a tratti sguaiato del
rinnovamento a breve termine, trova nel conflitto costante lo strumento per
apparire “fuori dagli schemi”, nella continua ricerca del nemico da abbattere
il leitmotiv della sua immediata strategia.
La dimensione di garante di un esecutivo di scopo, chiamato a superare
senza strappi il semestre europeo e a favorire l’approvazione di una legge
elettorale in grado di restituire un minimo di stabilità a un Paese paralizzato
nelle sabbie mobili del tripolarismo impefetto, gli sta stretta quasi quanto
quella del segretario tenuto a raggiungere la sintesi tra le mille anime di un
partito in ebollizione. Matteo non unisce, divide; Matteo non aspetta, corre;
Matteo non costruisce, rottama.
Il Governo Letta sfiduciato con un
tweet; il Patto del Nazareno quale rampa di lancio per Palazzo Chigi: il nemico
da abbattere diventano i sindacati riottosi, i professoroni impegnati a
difendere privilegi e rendite di posizione, gli intellettuali professionisti
del catastrofismo. Le minoranze interne sono schiaffeggiate dai numeri del voto
europeo; i militanti di quella fetta di area progressista che implorano un
rallentamento al “governo del fare”, opponendosi al superamento del patrimonio
di valori, culture e conoscenze conquistato in quasi mezzo secolo di battaglie
democratiche, vengono irrisi dagli oplites
della generazione Telemaco, onesto comprimario dell’Odissea inopinatamente
elevato a icona di un gruppo dirigente impermeabile al principio secondo cui un
popolo che ignora le proprie radici non è in grado di comprendere il proprio
presente.
Insofferenza ai tempi lunghi della
discussione democratica, connessione tra leader e popolo basata sulla forza del
messaggio istantaneo, esaltazione di un rinnovamento inteso come obliterazione
del tessuto valoriale comune si saldano nella riforma costituzionale, nella
spericolata distorsione del referendum sulla revisione della Carta in un
giudizio ordalico sulla figura di Matteo il rottamatore, alla continua ricerca
di una legittimazione popolare non richiesta e non necessaria. Ma una Carta
creata per offrire un sistema di regole condivise a un Paese allo sbando sfugge
alla logica del nemico a ogni costo; una Carta creata per unire non può
trasformarsi in uno strumento di lotta politica: si mobilitano i sindacati
riottosi, i professoroni e i professorini, i professionisti del catastrofismo.
Si mobilita quella fetta di sinistra diffusa che, privata di un referente
politico immediato, guarda alla Costituzione come a una realtà da praticare e
non da rottamare.
In una notte diversa da quella dei
centouno, Renzi si riscopre fondamentalmente vittima del suo stesso
personaggio, prima che dei nemici alimentati dalla retorica del conflitto
costante: della propria incapacità di utilizzare le lenti del passato per
cogliere le dinamiche del presente; di comprendere che, proprio alla luce del
recente passato, una serie di circoscritte modifiche della Carta Fondamentale,
approvate dal Parlamento senza il coinvolgimento diretto del Governo, sarebbero
state metabolizzate molto più facilmente da un elettorato diviso tra la tentazione
protestataria verso il Palazzo del potere e la paura del “salto nel buio”; di
percepire come il tentativo di stravolgimento dell’intera seconda parte della
Costituzione avrebbe finito col rappresentare il passaggio conclusivo della
parabola discendente intrapresa tre anni or sono da Matteo il Rottamatore.
Carlo
Dore jr.