“L’inganno
di Berlinguer”, ovvero l’inganno di un leader capace di consegnarsi alla Storia
come l’icona di un progetto di rottura degli equilibri consolidatisi all’ombra
del Muro di Berlino, obliterando la propria dimensione di alfiere di un
apparato irrigidito dalla cortina del centralismo democratico, di protagonista
indiscusso di una svolta destinata a rimanere incompiuta.
Ricostruzione
ardita, quella proposta nel libro di Domenico Del Prete. Ricostruzione ardita,
e tutta incentrata sulla particolare lettura di alcuni fatti specifici: la
frattura mai integralmente consumata con la grande madre Russia – nemmeno dopo
la repressione ungherese del 1956 e la Primavera di Praga del 1968 -;
l’espulsione dei reprobi del “Manifesto”; la stagione del grande
consociativismo in cui si risolverebbe il “compromesso storico”; il rapporto
mai consolidato con il partico socialista. Sullo sfondo, l’accusa, nemmeno
tanto velata, di non avere assecondato l’evoluzione del PCI in una forza
autenticamente socialdemocratica (evoluzione tardivamente abbozzata da Occhetto
attraverso la svolta della Bolognina), in grado di incarnare le istanze di una
moderna sinistra di governo.
Una
ricostruzione ardita, e forse poco attenta al quadro storico complessivo nel
quale si colloca il travaglio vissuto dai comunisti italiani nel secondo
dopoguerra, alla ricerca di quel socialismo dal volto umano da praticarsi sotto
l’ombrello della Nato, destinata a risolversi nel frettoloso tentativo di
rottamazione del patrimonio di battaglie democratiche e conquiste civili che
hanno scandito la storia italiana della seconda parte del ‘900, e rivelatosi
invece il presupposto imprescindibile per affrontare le sfide della modernità.
Una
ricerca protrattasi per quasi mezzo secolo, tra entusiasmo e sofferenze,
vittorie e sconfitte, intuizioni ed errori inevitabili. Se un errore fu la
mancata presa di posizione a favore dell’insurrezione ungherese – non
giustificabile in ragione dell’esigenza di tenere unita una base forgiata nel
mito della Rivoluzione d’Ottobre -, la Primavera di Praga impose invece ai
comunisti italiani – e per primo a Berlinguer – la ricerca di una prospettiva diversa
dalla fedeltà a Mosca: non più a est ma a ovest; da declinare non più sotto
l’egida del Patto di Varsavia ma sotto il più rassicurante contesto
dell’Alleanza atlantica.
Il
golpe cileno confermò l’attualità della strategia togliattiana diretta a
favorire l’interlocuzione tra masse socialiste e masse cattoliche; la necessità
di superare la conventio ad excludendum che
paralizzava la dialettica democratica di un Paese diviso in blocchi
contrapposti costituì il punto di partenza del “Compromesso storico”, primo
step di un disegno di ampio respiro che – attraverso le riflessioni
sull’eurosocialismo e le critiche mosse all’intero Politbjuro nei discorsi
tenuti dal Segretario a Mosca nel ’76 e nel ‘77 – mirava al superamento della
logica degli opposti imperialismi.
Un
partito di ispirazione autenticamente socialista affrancato dal giogo del
Cremlino; un partito che – senza rinnegare la sua identità in confronto del
modello socialdemocratico – si proponeva come forza di governo in un paese
collocato nel cuore del Mediterraneo: Berlinguer perseguiva una rivoluzione autentica,
e non alimentava l’inganno di una svolta mai intrapresa. Una rivoluzione
autentica, stroncata in Via Fani il 9 maggio 1978. La morte di Aldo Moro segnò
idealmente l’inizio della stagione che avrebbe condotto all’eutanasia della
Prima Repubblica: la stagione del Pentapartito, la stagione della “Milano da
bere”, la stagione del craxismo che già iniziava ad alimentare i germi
dell’epopea berlusconiana.
Del
processo di degenerazione della politica che questa stagione avrebbe innescato
– e destinato a deflagrare sotto i colpi di Tangentopoli -, della degradazione
dei partiti a “macchine di potere e clientela, nelle mani di boss e
sotto-boss”, della pericolosa commistione tra “finanziamenti irregolari o
illegali” e brutali forme di arricchimento personale forse solo Berlinguer
aveva intuito la portata, individuando nell’alternativa democratica, nella
centralità della questione morale, nella rivendicazione della “diversità”
comunista l’unica via d’uscita per la sinistra italiana dalla deriva in atto.
La
conclusione di questo ragionamento perviene ad un risultato per certi versi
speculare rispetto a quello che il libro di Del Prete tenta di perseguire:
lungi dal perpetrare un inganno alla Storia, Berlinguer si propone al giudizio
di essa come un leader capace di interpretare le tensioni, le insidie e le
prospettive del suo tempo, indicando ai comunisti italiani una dimensione
autonoma nel panorama internazionale, tratteggiando una strategia che poteva
condurre i discendenti di Gramsci al governo del Paese, offrendo alla sinistra
una via di fuga dalla crisi incombente. Ma un inganno, alla fine, forse c’è
stato: perpetrato da chi, anche richiamando impropriamente la stagione del
Compromesso storico, ha obliterato quel profilo autonomo che il Segretario
intendeva imprimere al partito, liquidando, in nome della modernità, quel
patrimonio di idee e valori di cui la sinistra teorizzata da Berlinguer doveva
invece costituire espressione. La chiosa è affidata alle parole di Aldo
Tortorella, in quella che forse è la più lucida tra le testimonianze raccolte
nel volume di Del Prete: “Si è visto che fine ha fatto chi è diventato
liberista”.
Carlo
Dore jr.
(pubblicato
su www.articolo1mdp.it)