In
un lungo editoriale pubblicato sul Corriere della Sera lo scorso 2 novembre,
Angelo Panebianco segnalava il silenzio dei “puristi della Costituzione” - così intendendo quello “stratificato movimento”
di politici, professori, intellettuali, semplici cittadini che si sono opposti
tanto al progetto di revisione costituzionale elaborato dal Saggi di Lorenzago
nel 2006, quanto dal ddl Renzi – Boschi oggetto del referendum del dicembre
2016 - avverso “ i propositi costituzionalmente eversivi di Grillo e
Casaleggio”, silenzio considerato indicativo di una evidente consonanza
ideologica.
Al
netto di alcune affermazioni evidentemente poco meditate (i due progetti di
riforma dianzi richiamati non vertevano su “qualche comma”, ma sull’impianto
complessivo della seconda parte della Carta; specifiche misure volte a favorire
la stabilità dell’Esecutivo non alimenterebbero quel rischio peronista
viceversa riscontrabile nella radicale alterazione dell’equilibrio tra i poteri
dello Stato previsto dall’attuale assetto), l’articolo merita una breve
replica, anche allo scopo di gettare un fascio di luce sulle posizioni di
quella fetta di area democratica che, in ragione del suo impegno della
battaglia referendaria, è stata, negli ultimi tempi, ingiustificatamente
accusata di collateralismo rispetto alle forze che sostengono il “governo del
cambiamento”.
Come
emerge dallo scritto di Panebianco, questa contestazione muove infatti da una
falsa premessa che a sua volta alimenta una ancor più irricevibile conclusione:
la falsa premessa risiede nell’assunto in forza del quale il c.d. “movimento
dei puristi della Costituzione”, in realtà indifferente ai valori della
Resistenza e di fatto ignaro delle rationes
che presiedono alle scelte del Costituente, utilizzerebbe la Carta come una
sorta di clava da brandire in odio del capo politico di turno, si chiami
Berlusconi o si chiami Renzi; la conclusione si identifica invece in una sorta
di accondiscendenza degli esponenti del movimento in parola rispetto alle
pulsioni che animano la maggioranza di governo in carica, accondiscendenza
confermata dal silenzio verso posizioni estreme, come quelle che sostengono la
necessità di chiudere il Parlamento o di limitare le prerogative del Capo dello
Stato.
In
verità, a prescindere dalle logiche di schieramento, la mobilitazione a difesa
della Carta è sempre stata ispirata non dalla avversione in confronto del
Principe più o meno illuminato, ma dalla adesione ad un certo modello di
democrazia, nella consapevolezza del fatto che il sistema di equilibri
delineato dal Costituente deve per sua natura essere reso impermeabile alle
contingenze del singolo momento storico: un modello di democrazia imperniato su
un substrato di valori condivisi – come quello sul quale si muovevano le varie
forze politiche che avevano preso parte alla Lotta di Liberazione -; un modello
di democrazia basato sull’attuazione del “programma politico” identificabile
negli obiettivi indicati dalla Costituzione, e che le varie maggioranze di
governo alternatesi nel corso degli ultimi anni hanno troppo spesso evitato di
mettere in atto.
Ai
sostenitori di questo modello di democrazia non sfugge la malcelata avversione
dell’attuale maggioranza di governo rispetto al sistema di check and balances declinato dalla Carta fondamentale, né la
tendenza propria dei partiti aderenti al “contratto di governo” su cui si fonda
l’Esecutivo in carica ad assumere scelte in aperto contrasto con quanto
stabilito dal dettato costituzionale. Una tendenza emersa dall’abusivo ricorso
alla decretazione d’urgenza, e dall’approvazione del “decreto sicurezza” in
assenza dei presupposti di necessità e urgenza richiesti dall’art. 77, comma 2;
una tendenza manifestata rispetto agli artt. 2 e 18, con i principi della
tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, di solidarietà e di inviolabilità
personale pericolosamente disapplicati in occasione delle vicende che hanno
coinvolto le navi Acquarius e Diciotti; una tendenza ribadita con riferimento
all’art. 47, dalla minaccia al valore della tutela del risparmio innervata da
una politica economica generatrice di una potenzialmente incontrollabile
decuplicazione del debito pubblico; una tendenza palesata in ordine all’art.
49, attraverso l’esaltazione del ruolo del capo politico (talvolta perfino elevato
al grado di Capitano) invero poco compatibile con il metodo democratico che
dovrebbe ispirare l’azione dei partiti; una tendenza, infine, confermata con
riguardo all’art. 54, risultando i “balli sul balcone” dei parlamentari
pentastellati difficilmente riconducibili ai parametri di disciplina e onore a
cui deve ispirarsi la condotta dei titolari di pubbliche funzioni.
Una
tendenza che gli appartenenti a quel “Movimento dei puristi della Costituzione”
elaborato dalla poco felice ironia di Panebianco non condividono e non
assecondano, e che dimostrano – attraverso la mobilitazione a presidio della centralità del
Parlamento (svilita dall’ingiustificato ricorso alla questione di fiducia da
parte del Governo), delle prerogative del Presidente della Repubblica ed a
difesa dell’autonomia delle scelte della Magistratura, nonché tramite
l’adesione a tutte le manifestazioni di protesta ad ogni tipo di
discriminazione razziale – di avversare senza cedimenti: nella consapevolezza
del fatto che i valori fondanti il modello di democrazia tratteggiato dalla
carta non sono negoziabili, né possono essere messi in discussione dai
depositari del potere politico in un dato momento storico.
Carlo
Dore jr., Luisa Sassu, Marco Sini, Roberto Mirasola, Mariella Montixi
(articolo pubblicato sul sito FuoriPagina )