Le
prime note della sarabanda delle occasioni mancate iniziano a risuonare nella
notte del 4 dicembre del 2016, quando il corpo elettorale, paralizzando l’entrata
in vigore del ddl Renzi – Boschi di riforma dell’intera seconda parte della
Costituzione, ha riaffermato l’attualità del modello di democrazia declinato
dalla Carta Fondamentale, e dei principi ai quali quel modello risulta ispirato.
L’esito
della consultazione referendaria veniva infatti percepito come il momento
conclusivo della parabola del renzismo, come il requiem che doveva accompagnare la transizione dei protagonisti
della stagione della rottamazione dai fasti dei palazzi del potere all’oblio
della vita privata, e come il preludio di una nuova stagione per l’intera area
democratica. Una nuova stagione basata sulla comprensione degli errori commessi
nei due anni del Governo secondo Matteo, su un nuovo patto fondativo tra la
sinistra e i suoi tradizionali riferimenti sociali, su una nuova proposta
politica costruita proprio alla luce di quei principi costituzionali in cui gli
elettori avevano appena dimostrato di volersi riconoscere.
Sì,
la sconfitta del renzismo era un’occasione, e si è rivelata la prima di tante
occasioni mancate: attraverso la logora liturgia di un congresso senza
confronto, Renzi si è assicurato il controllo di (quello che restava di) un
partito senza entusiasmo e senza prospettive, ridotto a vuota sovrastruttura di
coordinamento per parlamentari e consiglieri. Ma quel risultato era un’occasione,
anche per le forze collocate a sinistra del PD, un’occasione alimentata dal
coraggio di alcune personalità di livello nazionale che, rinunciando alla
rassicurante garanzia di una quasi scontata rielezione, hanno scelto di
impegnarsi nella costruzione di una nuova proposta in grado di offrire un’alternativa
ad un popolo orbato dei suoi tradizionali riferimenti.
Tuttavia,
anche questa proposta è stata ben presto assorbita dalla sarabanda delle
occasioni mancate, dalla pervicace tendenza di un’ampia fetta di ceto politico
ad impadronirsi, nelle varie realtà locali, di queste forze di nuova creazione,
allo scopo di garantirsi una fetta – seppure sempre più ridotta – di piccole e
medie rendite di posizione. La sarabanda delle occasioni mancate è esplosa
allora in uno stonato crescendo rossiniano con le elezioni del 4 marzo,
overture del contratto di governo tra Salvini e Di Maio: la retorica del “fuori
i negher” diventa linguaggio istituzionale, l’incompetenza è ostentata alla
stregua di una medaglia al valore, la disapplicazione manifesta dei principi
costituzionali diviene la bussola che orienta l’indirizzo politico della
maggioranza.
Un
grido di dolore si alza da associazioni, intellettuali, operatori economici,
settori della cultura all’indirizzo dell’opposizione democratica: dateci un’alternativa,
basata sulla formulazione di un programma finalmente coinvolgente, sulla
formazione di una classe dirigente autenticamente rinnovata, capace di
intercettare le energie sprigionate dalla campagna referendaria. Dateci un’alternativa,
fin dalle prossime elezioni locali: fin dalle elezioni in Sardegna. Perché
anche la Sardegna potrebbe, in questo senso, rappresentare un’occasione.
Ma
la sarabanda delle occasioni mancate ha da tempo superato il Tirreno: smaltita
rapidamente la depressione post-referendaria, gli epigoni del renzismo isolano
si ritrovano oggi sotto le insegne di quel gruppo dirigente che, dall’Ora tocca
a noi all’adesione alla riforma costituzionale, della rottamazione leopoldina
ha saputo rendersi più precursore che semplice interprete, mentre i partiti
prodotti dalla scissione del PD, archiviata rapidamente ogni velleità di
rottura con il recente passato, aderiscono placidamente all’ennesima
riproposizione di quel modello di centro-sinistra al cui superamento, nelle
intenzioni dei fondatori, dovrebbero viceversa essere funzionali.
Ecco
allora che la disperata richiesta di alternativa rivolta all’opposizione
democratica sembra ancora una volta infrangersi sull’appello al voto utile
dinanzi all’ennesima sfida secca tra conservazione dello status quo e resa
incondizionata all’incedere del leghismo alla campidanese, che quel grido di
dolore a cui si è poc’anzi fatto cenno è destinato a cadere nel vuoto della perenne
mancanza di riferimenti, lasciando all’area democratica solo l’amarezza che
sempre accompagna le ultime note della sarabanda delle occasioni mancate.
Carlo
Dore jr.
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