Le
riflessioni contenute nel recente editoriale di Gustavo Zagrebelsky – relative
alla vena di “tribalismo” che, insinuandosi nelle viscere della società
italiana, ha finito col mettere in discussione il modello di democrazia
delineato dalla Carta Fondamentale – acquistano ulteriore attualità alla luce
delle modalità di approvazione della legge di bilancio, con il Parlamento
costretto ad approvare “a scatola chiusa” l’atto normativo innervante le linee
della politica economica del Paese, e le opposizioni (in gran parte
identificabili nelle stesse forze impegnate, solo due anni or sono, a segnalare
l’incompatibilità tra i tempi lunghi delle dinamiche parlamentari e l’efficientismo
delle democrazie decidenti) chiamate a denunciare la lesione delle prerogative
delle Camere.
Una
nuova attualità, figlia illegittima di un interrogativo proposto con forza da
quei settori dell’area democratica che tuttora individuano nella Costituzione
la via maestra del proprio agire: lo “strato” della Carta, i principi in essa
contenuti e gli apparati preposti a garantirne l’attuazione trovano ancora un
riscontro nei valori condivisi dal substrato sociale su cui la Carta stessa si
innesta?
Ad
una prima analisi, la risposta al quesito appena formulato non può che essere
positiva: negli ultimi dodici anni, sono stati proposti due progetti di
revisione costituzionale di fatto qualificabili alla stregua di attacchi
frontali all’impianto complessivo della Costituzione, ad opera di maggioranze
di diverso orientamento le quali, animate dalla stessa idiosincrasia verso il
sistema di garanzie in esso contenuto, di fatto proponevano il superamento
della democrazia parlamentare a favore di una sorta di una sorta di
autoritarsimo a bassa intensità, imperniato sullo svuotamento delle prerogativa
del Parlamento e la consacrazione a livello normativo della figura del primus supra pares.
In
entrambe le occasioni, gli attacchi frontali a cui si è fatto cenno non hanno
superato le colonne d’Ercole del referendum oppositivo, con i cittadini
mobilitati per riaffermare l’attualità del compromesso alto raggiunto nel 1948
dai protagonisti della Lotta di Liberazione. Ma se l’esito delle consultazioni
referendarie ha messo in sicurezza la Carta dagli attacchi frontali di cui
sopra, esso non sembra idoneo a fungere da rete di protezione contro un
diverso, ma non meno inquietante, fenomeno: quello dell’erosione silenziosa dei
principi costituzionali da parte di forze politiche che – espressione del tribalismo
denunciato da Zagrebelsky, e appunto identificabile nell’esaltazione
dell’incompetenza, nell’affermazione costante nella cultura del nemico
(individuato, a seconda delle convenienze del momento, negli immigrati, nelle
istituzioni comunitarie, negli organi di stampa, nei tecnici dei ministeri),
nel pervicace ricorso ad un linguaggio aggressivo, utile a solleticare gli
istinti più bassi di un Paese in sofferenza – declinano nei fatti una cultura
del potere incompatibile con quella a cui sono ispirate le scelte del
Costituente.
In
questo senso, la ventilata richiesta di impeachment del Capo dello Stato – reo
di avere, in occasione della formazione dell’Esecutivo in carica, rivendicato
il potere di nomina dei ministri assegnatogli dall’art. 92 – era stato un primo
segnale di scollamento tra dato normativo e concreta azione istituzionale; il
decreto sicurezza, le vicende della nave Diciotti e le già richiamate modalità
di approvazione della legge di bilancio confermano l’erosione in atto: senza
mettere (almeno per ora) in discussione l’involucro formale della norma
costituzionale, lo strapotere della maggioranza politica contingente sta
trasformando la Carta in un simulacro vuoto; lo strato costituzionale, in altri
termini, viene silenziosamente eroso dal tribalismo che esonda da certi ambiti
del substrato sociale.
L’interrogativo
di partenza assuma allora un ulteriore, e più specifico rilievo: di quali mezzi
dispone l’area democratica, per riaffermare ancora una volta l’attualità dei
principi della Costituzione? In cosa può risolversi quella “resistenza civile”
a cui fa appello l’editoriale di Zagrebelsky? La risposta non può che dipanarsi
su due diversi piani: da un lato, questa resistenza civile deve tradursi in una
rinnovata fiducia in quelle istituzioni di garanzia (Presidente della
Repubblica, Corte costituzionale, Magistratura), le quali hanno dimostrato di
saper preservare la loro indipendenza anche dinanzi ai desiderata dei depositari diretti o indiretti del potere politico
in questa delicata congiuntura storica. D’altro lato, questa esigenza di
reazione non può che essere canalizzata in una nuova mobilitazione, analoga a
quella che ha ispirato il voto del 2016, a difesa del modello di democrazia
delineato dalla Carta, nella consapevolezza del fatto che l’erosione silenziosa
perpetrata dalle forze espressione del tribalismo sociale non è meno
pericolosa, per la sopravvivenza di quel modello, degli attacchi frontali di
cui lo stesso è stato oggetto nel recente passato.
Carlo
Dore jr.