Per la terza volta in quattordici anni, il corpo elettorale viene chiamato ad esprimersi in un referendum oppositivo ad una legge di revisione costituzionale, nel caso di specie relativa agli artt. 56, 57 e 59 della Carta, nella parte in cui determinano il numero dei membri delle Camere.
Rispetto
ai precedenti progetti di riforma (che investivano in vario modo l’impianto complessivo
della seconda parte della Costituzione), la legge di revisione costituzionale n.
240 del 2019 contiene una modifica specifica del dettato costituzionale,
collocandosi così pacificamente, almeno da questo punto di vista, nel percorso
indicato dall’art. 138 Cost.
L’insussistenza
della criticità costituita dal fatto di costringere l’elettore ad esprimere un
voto “a scatola chiusa” su un unico quesito referendario riguardante la revisione
di decine di disposizioni della Carta non è però sufficiente per accettare
quasi senza colpo ferile l’entrata in vigore di una riforma comunque caratterizzata
da molteplici zone d’ombra, di cui costituzionalisti di differente orientamento
hanno con forza evidenziato l’esistenza: zone d’ombra riferibili (oltre che ai
più volte richiamati profili dell’ingiustificata contrazione della rappresentanza)
tanto alla genesi della riforma stessa, quanto all’impostazione di fondo che la
caratterizza.
Sotto
il primo aspetto, non deve sfuggire come – a seguito della crisi di governo
della scorsa estate e della conseguente formazione della maggioranza che
sostiene l’Esecutivo in carica – la L. n. 240 del 2019 sia stata approvata in
ultima lettura con il voto favorevole di alcune forze politiche che ad essa si
erano viceversa opposte nelle letture precedenti, in considerazione del fatto
che la “riduzione del numero dei parlamentari” avrebbe dovuto costituire il
primo tassello di un percorso riformatore più ampio destinato a trovare il
proprio zenit nella nuova legge elettorale, sulla quale però i partiti di
governo faticano ad elaborare una soluzione condivisa.
Rilievo,
quello appena formulato, che innesca tre ulteriori considerazioni: ancora una
volta, la materia costituzionale viene individuata come un punto qualificante
dell’indirizzo politico della maggioranza, pur dovendo, per sua natura,
risultare estranea ad esso; la riforma costituzionale è di fatto ridotta a termine
di un baratto (quello con la futura legge elettorale) ispirato alla logica
spicciola del “oggi in contanti/domani a credito”, per forza di cose incompatibile
con quel connotato di “compromesso alto tra forze di differente orientamento”
che di ogni Costituzione rappresenta il tratto essenziale. Infine, il voto favorevole
delle forze che della riforma avevano osteggiato l’approvazione nelle
precedenti letture impedisce di ravvisare alla base della stessa una forte idea
di democrazia condivisa: e una Costituzione non supportata da un’idea di
democrazia condivisa non può che identificarsi in un’aquila dalle ali di cera,
destinata, proprio come Icaro, ad un volo breve ed infelice.
Sotto
il secondo aspetto (quello dell’ispirazione di fondo), è nota la tendenza del
legislatore attuale a considerare il modello parlamentare accolto dalla Carta
come un ostacolo da aggirare, se non proprio come un limite da abbattere attraverso
l’avventura della revisione costituzionale. Conferma questa tendenza il più
volte segnalato abuso, da parte degli Esecutivi alternatisi negli ultimi anni,
del ricorso alla decretazione d’urgenza; conferma questa tendenza il modo in cui
è stata affrontata, a livello normativo, l’emergenza sanitaria dello scorso
marzo.
A
prescindere da ogni considerazione sul contenuto delle misure adottate
(rivelatesi peraltro efficaci, nel quadro del contrasto alla pandemia), rimane
fermo l’utilizzo di un decreto legge e di una girandola di DPCM per incidere su
una materia, quella delle limitazioni alla libertà personale dei cittadini, che
l’art. 13 Cost. considera coperta da una riserva assoluta di legge: la legge (atto
di volontà del Parlamento) superata da altre fonti primarie e secondarie; il dibattito
parlamentare descritto come inutile impedimento alla rapida trattazione dell’emergenza;
il Governo anteposto al Parlamento come centro di produzione normativa.
Un
Parlamento superabile; un Parlamento pletorico; un Parlamento mutilabile:
eccolo, il fil rouge che conduce alla riforma costitizionale.
In
questa prospettiva, il voto contrario in sede referendaria all’entrata in vigore
alla Legge di revisione costituzionale n. 240 del 2019 finisce allora con l’assumere,
al netto della specificità del quesito, il pregnante significato di un monito
democratico: un monito per le forze di maggioranza, chiamate a non sacrificare
l’integrità della Carta sull’altare di esigenze politiche contingenti; un
monito soprattutto per il legislatore, affinché riesca finalmente a trovare nei
principi della Carta non un limite da abbattere, ma il riferimento principale a
cui ispirare la sua azione.