mercoledì, febbraio 14, 2007


LA MOZIONE FASSINO: TRA “ARIA FRITTA” E AUTORITARISMO RIFORMISTA

La pubblicazione delle mozioni su cui il congresso dei DS sarà chiamato ad esprimersi in primavera, allorquando si deciderà se la strategia diretta alla creazione del PD potrà o meno trovare attuazione, era particolarmente attesa dai militanti del principale partito della sinistra italiana. In particolare, quel sempre più nutrito drappello di “irriducibili conservatori” che finora si sono limitati “a condannare apoditticamente” il progetto unitario speravano di individuare, tra le righe della mozione – Fassino e del famoso Manifesto degli intellettuali, qualche argomentazione idonea ad attribuire un minimo di fondatezza ad una linea programmatica della quale, al momento, non è dato comprendere presupposti ed obiettivi.
Ebbene, questa speranza è andata miseramente delusa: se si volesse infatti proporre una definizione politicamente corretta dei principi di cui si compongono i documenti sopra citati, si dovrebbe osservare che essi si articolano in una serie di enunciati contraddistinti da una palese mancanza di contenuti, considerato che qualunque partito politico di ispirazione non autoritaria non può che mirare alla realizzazione di un modello di società tollerante, multietnica e meritocratica, caratterizzata da una bassa disoccupazione, da un economia stabile, da istituzioni moderne e da un’amministrazione efficiente. Se invece si volesse fare ricorso ad un linguaggio semplicemente più immediato, allora la qualifica di “concentrato di aria fritta” proposta con riferimento al contenuto della mozione “per il PD” emergerebbe in tutta la sua macroscopica correttezza.
Allo stato, la posizione dei sostenitori della linea elaborata da Fassino può quindi essere così riassunta: alea iacta est, il socialismo è morto, la nuova forza politica è destinata a nascere del 2008. Premesso che i militanti si interrogano su chi abbia tirato i dadi e soprattutto su chi possa essersi assunto la responsabilità di decretare il superamento di un’ideologia dalla storia gloriosa e dalla sconcertante attualità, coloro i quali legittimamente si oppongono ad un simile status quo, rilevando le tante ambiguità insite nella strategia in commento, vengono ad essere senza mezzi termini tacciati di gretto estremismo, di miopia politica, di settarismo sterile.
Chiarito che simili reazioni scomposte, facilmente riconducibili a logiche di tipo autoritario, non si addicono di certo ai sostenitori di un partito che dovrebbe essere “aperto” a differenti orientamenti, la deriva neocentrista che l’attuale gruppo dirigente vuole imporre al partito (nel tentativo di trasformare il futuro congresso in un mero organo di ratifica di una decisione già varata) potrebbe incontrare solo due spiegazioni logiche.
In primo luogo, non sembra infatti priva di fondamento la costruzione in base alla quale il PD nascerebbe per “dare un partito a Prodi”, unico tra i grandi leaders europei a non essere direttamente rappresentato da una forza politica in grado di partecipare ad una competizione elettorale. Ma proprio questo obiettivo di normalizzazione della politica fa emergere una delle tante anomalie che inficiano il nostro sistema istituzionale: posto che l’Italia rimane una delle poche democrazie occidentali in cui il candidato premier dell’area progressista non può essere diretta espressione del principale partito collegato alla coalizione che lo sostiene, non si può non rilevare come in Francia, in Spagna, ed in Germania partiti di chiara estrazione socialista sono da tempo in grado di indicare un loro esponente per la guida dell’Esecutivo.
In ragione di quanto appena affermato, non si comprende la ragione per cui i DS, invece di rafforzare la loro condizione di credibile forza di governo, hanno scelto di rinunciare alla loro identità storica, per risolversi di fatto in un contenitore moderato del tutto estraneo alla tradizione ideologica della sinistra europea.
In secondo luogo, si potrebbe sostenere che gli elettori hanno dimostrato, in occasione delle ultime consultazioni politiche, di condividere a tal punto la strategia unitaria da convincere le segreterie dei due partiti di riferimento ad accelerare il processo di creazione del nuovo soggetto politico. Tuttavia, fermo restando che gli esiti riportati dalla lista dell’Ulivo non rispecchiano in alcun modo le aspettative del gruppo dirigente, sembra logico osservare che il minimo scarto che intercorre tra i consensi ottenuti dalla suddetta lista e la somma dei voti riportati da DS e Margherita trova la sua ragione giustificativa nella volontà, diffusa tra i militanti di centro-sinistra, di sostenere Romano Prodi nella corsa contro il Caimano.
Queste semplici considerazioni sono solo un’ulteriore conferma della congenita debolezza che contraddistingue gli argomenti a cui fanno ricorso i sostenitori del PD, debolezza che assume contorni sempre più inquietanti quando la strategia elaborata nell’assise di Orvieto viene descritta alla stregua “un treno che ormai non può più essere fermato”. Riprendendo in questo senso il pensiero dell’iper-riformista Reichlin, è infatti logico sostenere che, se un partito non si inventa dall’oggi al domani, a maggior ragione “aria fritta” e pulsioni autoritarie non possono costituire l’esclusivo fondamento di un valido progetto politico.

Carlo Dore jr.

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