VELTRONI, IL SUSSULTO DEMOCRATICO E LA TEORIA DEL “VOTO CONTRO”
Il comizio tenuto a Cagliari da Walter Veltroni ha costituito l’ennesimo momento poco significativo della campagna elettorale meno coinvolgente della storia repubblicana. Mentre la consueta schiera di dirigenti ulivisti si disponeva in ordine sparso tra le tante bandiere di Piazza Garibaldi, il Segretario del PD proponeva alla platea di elettori e simpatizzanti un discorso ispirato al consueto low profile, in cui le grandi questioni di rilevanza nazionale venivano esaminate da una prospettiva per lo più non condivisibile agli occhi di chi ancora si ritiene ancorato ai valori della “sinistra tradizionale”.
Tuttavia, le ultime note della canzone di Jovanotti (inopinatamente scelta come inno elettorale del nuovo partito) lasciavano nella piazza che si svuotava la triste eco di una domanda rimasta in sospeso, figlia illegittima dell’inevitabile sequenza di riflessioni al veleno che questa triste stagione di quaresima della politica fatalmente ispira. Coloro i quali hanno sposato sin dall’inizio il progetto volto alla creazione del Partito Democratico si sono di fatto dichiarati disposti a sacrificare le grandi ideologie del ‘900 sull’altare di un non ben definito modello di cambiamento, evidentemente ignari del fatto che l’attuazione di una reale strategia riformatrice non può esaurirsi nella creazione di una mera “facciata elettorale”, ma presuppone inoltre la formazione di una classe dirigente in grado di subentrare, una volta per sempre, a quella ristretta cerchia di oligarchi che da troppo tempo regge le sorti del centro-sinistra italiano.
Premesso che la candidatura di alcuni autorevolissimi esponenti della società civile costituisce solo il primo passo per il completamento di siffatta strategia, le ragioni di perplessità suscitate (con particolare riferimento alle materie della riforma della legge elettorale e del sistema delle intercettazioni telefoniche) dall’intervento di Veltroni in occasione della kermesse dei riformisti cagliaritani impongono la formulazione di quell’interrogativo a cui si è in precedenza fatto cenno: in assenza di un progetto politico degno di tale nome, come può un leader che non raccoglie nemmeno il totale sostegno del suo tradizionale elettorato superare le resistenze di quell’ampia fetta di indecisi, i cui voti incideranno in maniera forse determinante sull’esito delle elezioni?
In questo senso, un notevole contributo alle speranze di vittoria del PD potrebbe derivare dall’applicazione di quella che alcuni opinionisti hanno qualificato come la “teoria del voto contro”: trovandosi senza un partito da sostenere e senza un candidato premier in grado di rappresentarne adeguatamente le posizioni, è infatti auspicabile che soprattutto gli aderenti a quella fascia di elettorato progressista che continua a non riconoscersi nella politica del “ma-anchismo” decidano comunque di mobilitarsi al solo scopo di impedire il ritorno delle destre al potere.
Costituisce infatti una verità ormai incontrovertibile l’assunto in base al quale ai democratici italiani non è data la possibilità di impostare un confronto con un avversario del calibro di Angela Merkel, Mariano Rajoy o David Cameron, di condurre cioè un dibattito politico di alto profilo con gli esponenti di un autorevole partito conservatore. Essi viceversa si trovano, dalla metà degli anni’ 90, nell’infelice condizione di dover semplicemente combattere contro Berlusconi, influente cortigiano della Milano da bere postosi a capo di una variegata compagine di ex democristiani, ex socialisti ed ex missini che Gloria Buffo (in una nota intervista rilasciata a “L’Unità” nel luglio del 2001) non esitò a bollare come espressione di una “destra a-costituzionale”.
Sconfessando una volta di più il buonismo fine a sè stesso di quanti ancora si ostinano a negare che l’antiberlusconismo sia un valore, dinanzi alla prospettiva costituita dall’inesorabile trasformazione delle sedi istituzionali in rampe di lancio per veline dal sorriso facile, in centri di aggregazione per il manipolo di squadristi in doppio petto capitanati dal redivivo Ciarrapico o in fermate periferiche del treno scelto dal sempreverde Mauro Pili per il suo nuovo tour elettorale, lo spettro del Caimano può alla lunga costituire l’unico fattore idoneo ad innescare nel popolo della sinistra quel “sussulto democratico” necessario non solo per spingere la corsa di Veltroni lungo il tragitto che separa il Campidoglio da Palazzo Chigi, ma anche per procedere nella creazione di quella nuova classe dirigente che dovrà guidare i progressisti italiani nelle difficili sfide che questa delicata fase politica quotidianamente propone.
Carlo Dore jr.
Il comizio tenuto a Cagliari da Walter Veltroni ha costituito l’ennesimo momento poco significativo della campagna elettorale meno coinvolgente della storia repubblicana. Mentre la consueta schiera di dirigenti ulivisti si disponeva in ordine sparso tra le tante bandiere di Piazza Garibaldi, il Segretario del PD proponeva alla platea di elettori e simpatizzanti un discorso ispirato al consueto low profile, in cui le grandi questioni di rilevanza nazionale venivano esaminate da una prospettiva per lo più non condivisibile agli occhi di chi ancora si ritiene ancorato ai valori della “sinistra tradizionale”.
Tuttavia, le ultime note della canzone di Jovanotti (inopinatamente scelta come inno elettorale del nuovo partito) lasciavano nella piazza che si svuotava la triste eco di una domanda rimasta in sospeso, figlia illegittima dell’inevitabile sequenza di riflessioni al veleno che questa triste stagione di quaresima della politica fatalmente ispira. Coloro i quali hanno sposato sin dall’inizio il progetto volto alla creazione del Partito Democratico si sono di fatto dichiarati disposti a sacrificare le grandi ideologie del ‘900 sull’altare di un non ben definito modello di cambiamento, evidentemente ignari del fatto che l’attuazione di una reale strategia riformatrice non può esaurirsi nella creazione di una mera “facciata elettorale”, ma presuppone inoltre la formazione di una classe dirigente in grado di subentrare, una volta per sempre, a quella ristretta cerchia di oligarchi che da troppo tempo regge le sorti del centro-sinistra italiano.
Premesso che la candidatura di alcuni autorevolissimi esponenti della società civile costituisce solo il primo passo per il completamento di siffatta strategia, le ragioni di perplessità suscitate (con particolare riferimento alle materie della riforma della legge elettorale e del sistema delle intercettazioni telefoniche) dall’intervento di Veltroni in occasione della kermesse dei riformisti cagliaritani impongono la formulazione di quell’interrogativo a cui si è in precedenza fatto cenno: in assenza di un progetto politico degno di tale nome, come può un leader che non raccoglie nemmeno il totale sostegno del suo tradizionale elettorato superare le resistenze di quell’ampia fetta di indecisi, i cui voti incideranno in maniera forse determinante sull’esito delle elezioni?
In questo senso, un notevole contributo alle speranze di vittoria del PD potrebbe derivare dall’applicazione di quella che alcuni opinionisti hanno qualificato come la “teoria del voto contro”: trovandosi senza un partito da sostenere e senza un candidato premier in grado di rappresentarne adeguatamente le posizioni, è infatti auspicabile che soprattutto gli aderenti a quella fascia di elettorato progressista che continua a non riconoscersi nella politica del “ma-anchismo” decidano comunque di mobilitarsi al solo scopo di impedire il ritorno delle destre al potere.
Costituisce infatti una verità ormai incontrovertibile l’assunto in base al quale ai democratici italiani non è data la possibilità di impostare un confronto con un avversario del calibro di Angela Merkel, Mariano Rajoy o David Cameron, di condurre cioè un dibattito politico di alto profilo con gli esponenti di un autorevole partito conservatore. Essi viceversa si trovano, dalla metà degli anni’ 90, nell’infelice condizione di dover semplicemente combattere contro Berlusconi, influente cortigiano della Milano da bere postosi a capo di una variegata compagine di ex democristiani, ex socialisti ed ex missini che Gloria Buffo (in una nota intervista rilasciata a “L’Unità” nel luglio del 2001) non esitò a bollare come espressione di una “destra a-costituzionale”.
Sconfessando una volta di più il buonismo fine a sè stesso di quanti ancora si ostinano a negare che l’antiberlusconismo sia un valore, dinanzi alla prospettiva costituita dall’inesorabile trasformazione delle sedi istituzionali in rampe di lancio per veline dal sorriso facile, in centri di aggregazione per il manipolo di squadristi in doppio petto capitanati dal redivivo Ciarrapico o in fermate periferiche del treno scelto dal sempreverde Mauro Pili per il suo nuovo tour elettorale, lo spettro del Caimano può alla lunga costituire l’unico fattore idoneo ad innescare nel popolo della sinistra quel “sussulto democratico” necessario non solo per spingere la corsa di Veltroni lungo il tragitto che separa il Campidoglio da Palazzo Chigi, ma anche per procedere nella creazione di quella nuova classe dirigente che dovrà guidare i progressisti italiani nelle difficili sfide che questa delicata fase politica quotidianamente propone.
Carlo Dore jr.
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