LA “RIVOLUZIONE PROMESSA” ED IL “DITTATORE BUONO”
(Sulle prospettive di riforma della Costituzione)
Il tema delle riforme costituzionali su cui attualmente si registra la prospettiva di una serie di “larghe intese” tra maggioranza e opposizione si basa, in questa particolare fase storica, sull’ideale contrapposizione tra due concetti fondamentali: quello di “rivoluzione promessa” e quello di “dittatore buono”.
Pietro Calamandrei affermava infatti che l’entrata in vigore Costituzione del 1948 costituiva non già il momento conclusivo di una stagione riformatrice ormai prossima al tramonto, ma il momento iniziale di una vera e propria “rivoluzione” diretta a creare un modello di società più giusto dopo la barbarie del fascismo.
In questo senso, la “carica rivoluzionaria” propria della nostra Carta Fondamentale (derivante dall’incontro tra la cultura cattolica e la cultura socialista) sarebbe contenuta nel disposto dell’art. 3: premesso infatti che il primo comma della norma in esame precisa che tutti i cittadini sono eguali dinanzi alla legge (recependo il Costituente l’assunto in base al quale non c’è libertà senza eguaglianza, e non c’è democrazia senza eguaglianza e libertà), il secondo comma della stessa norma rileva come la Repubblica non deve soltanto ergersi a mero garante dei diritti individuali, ma deve anche rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena partecipazione di tutti i lavoratori alla vita politica, economica e sociale del Paese.
La carica rivoluzionaria propria di siffatta disposizione costituisce la ragione giustificativa dell’estrema attualità dei principi costituzionali, attualità confermata dal fatto che, sessant’anni dopo l’entrata in vigore della Carta, l’interprete può rinvenire nell’ambito di alcuni dei principi in essa contenuti (si pensi all’ art. 21, relativo alla libertà di espressione; all’art. all’art. 41, laddove si precisa che l’iniziativa economica privata è libera ma non può svolgersi in contrasto con la libertà, la sicurezza e la dignità umana; agli artt. 101 e 104, i quali configurano la Magistratura come un ordine autonomo rispetto al potere politico) la soluzione dei più stringenti problemi che oggigiorno attanagliano il nostro Paese.
Tuttavia, malgrado l’assoluta vitalità che contraddistingue la nostra Carta Fondamentale, nelle ultime quattro legislature sono state avanzate ben tre proposte di riforma della seconda parte della Costituzione, laddove sono contenuti i principi che delineano la forma di governo e che disciplinano i rapporti tra i poteri dello Stato. Le motivazioni su cui si basavano questi progetti di riforma venivano costantemente individuate nella necessità di eliminare gli eccessivi bizantinismi che appesantiscono il procedimento legislativo, nella necessità di garantire maggiore stabilità all’Esecutivo; nella necessità di rafforzare i poteri del premier, introducendo di fatto nel sistema una sorta di “dittatore buono” capace, grazie al consenso del corpo elettorale, di risolvere con rapidità ed efficacia i tanti problemi del Paese.
Ciò malgrado, a quanti hanno avuto modo di esaminare - come studiosi o come semplici militanti - i principali avvenimenti che hanno scandito gli ultimi quindici anni della storia italiana non può essere sfuggito il tentativo di imputare a pretese carenze del sistema istituzionale una serie di situazioni di crisi derivanti da deformazioni esclusivamente interne al sistema politico, in quanto riconducibili alla tendenza di alcuni partiti a rompere o a mettere in discussione il programma elettorale in ragione di mere strategie di potere.
In questo senso, mentre la riforma proposta dalla bicamerale D’Alema intendeva superare la forma di governo parlamentare per introdurre una sorta di “semi - presidenzialismo all’italiana” (un modello cioè simile a quello francese, caratterizzato però da alcuni correttivi), il disegno elaborato nel 2005 dai c.d. “saggi di Lorenzago” mirava viceversa ad instaurare una sorta di dittatura del premier, dittatura basata sul totale svilimento delle prerogative del Presidente della Repubblica (ridotto a mero organo di ratifica delle decisioni del Presidente del Consiglio), sul radicale asservimento del Parlamento alla volontà dell’Esecutivo (asservimento realizzato attraverso l’attribuzione al premier del potere di scioglimento delle camere, scioglimento previsto peraltro come automatica conseguenza dell’approvazione di una mozione di sfiducia), sulla sostanziale sottoposizione della Corte Costituzionale al controllo della maggioranza parlamentare. Insomma, se si considera che quella riforma era una sorta di inno al berlusconismo, si può affermare con ragionevole certezza che essa era finalizzata a consegnare ad un dittatore neanche tanto buono le chiavi del sistema - Italia.
Ora, quella che si è appena aperta è stata descritta come una legislatura costituente, come una legislatura in cui maggioranza ed opposizione dovrebbero cooperare per riscrivere insieme le regole del gioco. Tuttavia, in campagna elettorale Berlusconi sul punto è stato chiaro: il dialogo sulle riforme istituzionali deve ripartire dalla bozza di Lorenzago. Allo stato delle cose, sembra difficile che il Caimano cambi idea, e sembra ancor più difficile che questo PD possa incidere in maniera sensibile sulle scelte della maggioranza. Tuttavia, è nostro compito in questa sede porre una domanda: esistono le condizioni per cambiare la Costituzione? A nostro sommesso avviso, la risposta è no, ed è una risposta che si basa su molteplici argomentazioni.
Abbiamo infatti già avuto modo di sottolineare come la Carta del 1948 nasce dall’incontro tra cultura cattolica e cultura socialista, dalla sostanziale condivisione, da parte di tutte le principali forze presenti nell’Assemblea Costituente, dei valori e degli ideali che avevano animato la Resistenza e la lotta di Liberazione. Oggi quale sostrato di valori l’area democratica del Paese può condividere con “questa destra”? Con una destra di cui è autorevole esponente un intellettuale come Gianni Badget Bozzo, che non più di due giorni fa è arrivato a definire l’antifascismo come una forma di “fascismo rovesciato”; con una destra che ha eletto un Presidente della Camera dimostratosi incapace, nel suo discorso di insediamento, di pronunciare anche una sola volta la parola “antifascismo”; con una destra il cui asse portante è costituito da forze politiche direttamente discendenti da quella stessa realtà che i Costituenti avevano dovuto combattere prima di redigere l’attuale Carta Fondamentale?
Tutto ciò premesso, la situazione attuale appare molto più grave di quella profilatasi nel 2005, quando i cittadini si schierarono a difesa della Costituzione anche grazie alla presenza di un partito come i DS che, pur con tutte le sue contraddizioni ed i suoi limiti strutturali, era comunque capace di “fare opposizione” mobilitando i propri simpatizzanti a difesa dei valori di cui quel partito era sempre stato espressione. Oggi quel partito non c’è più, sostituito da una realtà indecifrabile sulla cui capacità di mobilitazione è lecito avanzare qualche dubbio.
E allora, nella speranza che un’eventuale riforma della Carta Fondamentale venga comunque sottoposta al giudizio degli elettori, spetterà alla sola società civile il ruolo di garante dell’integrità dell’attuale ordinamento costituzionale, minacciato dall’avvento del preteso dittatore buono. Nella consapevolezza del fatto che la Costituzione non ha ancora perso la propria attualità, e che la “rivoluzione promessa” teorizzata da Calamandrei deve essere ancora completata.
Enrico Palmas
Carlo Dore jr.
(Sulle prospettive di riforma della Costituzione)
Il tema delle riforme costituzionali su cui attualmente si registra la prospettiva di una serie di “larghe intese” tra maggioranza e opposizione si basa, in questa particolare fase storica, sull’ideale contrapposizione tra due concetti fondamentali: quello di “rivoluzione promessa” e quello di “dittatore buono”.
Pietro Calamandrei affermava infatti che l’entrata in vigore Costituzione del 1948 costituiva non già il momento conclusivo di una stagione riformatrice ormai prossima al tramonto, ma il momento iniziale di una vera e propria “rivoluzione” diretta a creare un modello di società più giusto dopo la barbarie del fascismo.
In questo senso, la “carica rivoluzionaria” propria della nostra Carta Fondamentale (derivante dall’incontro tra la cultura cattolica e la cultura socialista) sarebbe contenuta nel disposto dell’art. 3: premesso infatti che il primo comma della norma in esame precisa che tutti i cittadini sono eguali dinanzi alla legge (recependo il Costituente l’assunto in base al quale non c’è libertà senza eguaglianza, e non c’è democrazia senza eguaglianza e libertà), il secondo comma della stessa norma rileva come la Repubblica non deve soltanto ergersi a mero garante dei diritti individuali, ma deve anche rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena partecipazione di tutti i lavoratori alla vita politica, economica e sociale del Paese.
La carica rivoluzionaria propria di siffatta disposizione costituisce la ragione giustificativa dell’estrema attualità dei principi costituzionali, attualità confermata dal fatto che, sessant’anni dopo l’entrata in vigore della Carta, l’interprete può rinvenire nell’ambito di alcuni dei principi in essa contenuti (si pensi all’ art. 21, relativo alla libertà di espressione; all’art. all’art. 41, laddove si precisa che l’iniziativa economica privata è libera ma non può svolgersi in contrasto con la libertà, la sicurezza e la dignità umana; agli artt. 101 e 104, i quali configurano la Magistratura come un ordine autonomo rispetto al potere politico) la soluzione dei più stringenti problemi che oggigiorno attanagliano il nostro Paese.
Tuttavia, malgrado l’assoluta vitalità che contraddistingue la nostra Carta Fondamentale, nelle ultime quattro legislature sono state avanzate ben tre proposte di riforma della seconda parte della Costituzione, laddove sono contenuti i principi che delineano la forma di governo e che disciplinano i rapporti tra i poteri dello Stato. Le motivazioni su cui si basavano questi progetti di riforma venivano costantemente individuate nella necessità di eliminare gli eccessivi bizantinismi che appesantiscono il procedimento legislativo, nella necessità di garantire maggiore stabilità all’Esecutivo; nella necessità di rafforzare i poteri del premier, introducendo di fatto nel sistema una sorta di “dittatore buono” capace, grazie al consenso del corpo elettorale, di risolvere con rapidità ed efficacia i tanti problemi del Paese.
Ciò malgrado, a quanti hanno avuto modo di esaminare - come studiosi o come semplici militanti - i principali avvenimenti che hanno scandito gli ultimi quindici anni della storia italiana non può essere sfuggito il tentativo di imputare a pretese carenze del sistema istituzionale una serie di situazioni di crisi derivanti da deformazioni esclusivamente interne al sistema politico, in quanto riconducibili alla tendenza di alcuni partiti a rompere o a mettere in discussione il programma elettorale in ragione di mere strategie di potere.
In questo senso, mentre la riforma proposta dalla bicamerale D’Alema intendeva superare la forma di governo parlamentare per introdurre una sorta di “semi - presidenzialismo all’italiana” (un modello cioè simile a quello francese, caratterizzato però da alcuni correttivi), il disegno elaborato nel 2005 dai c.d. “saggi di Lorenzago” mirava viceversa ad instaurare una sorta di dittatura del premier, dittatura basata sul totale svilimento delle prerogative del Presidente della Repubblica (ridotto a mero organo di ratifica delle decisioni del Presidente del Consiglio), sul radicale asservimento del Parlamento alla volontà dell’Esecutivo (asservimento realizzato attraverso l’attribuzione al premier del potere di scioglimento delle camere, scioglimento previsto peraltro come automatica conseguenza dell’approvazione di una mozione di sfiducia), sulla sostanziale sottoposizione della Corte Costituzionale al controllo della maggioranza parlamentare. Insomma, se si considera che quella riforma era una sorta di inno al berlusconismo, si può affermare con ragionevole certezza che essa era finalizzata a consegnare ad un dittatore neanche tanto buono le chiavi del sistema - Italia.
Ora, quella che si è appena aperta è stata descritta come una legislatura costituente, come una legislatura in cui maggioranza ed opposizione dovrebbero cooperare per riscrivere insieme le regole del gioco. Tuttavia, in campagna elettorale Berlusconi sul punto è stato chiaro: il dialogo sulle riforme istituzionali deve ripartire dalla bozza di Lorenzago. Allo stato delle cose, sembra difficile che il Caimano cambi idea, e sembra ancor più difficile che questo PD possa incidere in maniera sensibile sulle scelte della maggioranza. Tuttavia, è nostro compito in questa sede porre una domanda: esistono le condizioni per cambiare la Costituzione? A nostro sommesso avviso, la risposta è no, ed è una risposta che si basa su molteplici argomentazioni.
Abbiamo infatti già avuto modo di sottolineare come la Carta del 1948 nasce dall’incontro tra cultura cattolica e cultura socialista, dalla sostanziale condivisione, da parte di tutte le principali forze presenti nell’Assemblea Costituente, dei valori e degli ideali che avevano animato la Resistenza e la lotta di Liberazione. Oggi quale sostrato di valori l’area democratica del Paese può condividere con “questa destra”? Con una destra di cui è autorevole esponente un intellettuale come Gianni Badget Bozzo, che non più di due giorni fa è arrivato a definire l’antifascismo come una forma di “fascismo rovesciato”; con una destra che ha eletto un Presidente della Camera dimostratosi incapace, nel suo discorso di insediamento, di pronunciare anche una sola volta la parola “antifascismo”; con una destra il cui asse portante è costituito da forze politiche direttamente discendenti da quella stessa realtà che i Costituenti avevano dovuto combattere prima di redigere l’attuale Carta Fondamentale?
Tutto ciò premesso, la situazione attuale appare molto più grave di quella profilatasi nel 2005, quando i cittadini si schierarono a difesa della Costituzione anche grazie alla presenza di un partito come i DS che, pur con tutte le sue contraddizioni ed i suoi limiti strutturali, era comunque capace di “fare opposizione” mobilitando i propri simpatizzanti a difesa dei valori di cui quel partito era sempre stato espressione. Oggi quel partito non c’è più, sostituito da una realtà indecifrabile sulla cui capacità di mobilitazione è lecito avanzare qualche dubbio.
E allora, nella speranza che un’eventuale riforma della Carta Fondamentale venga comunque sottoposta al giudizio degli elettori, spetterà alla sola società civile il ruolo di garante dell’integrità dell’attuale ordinamento costituzionale, minacciato dall’avvento del preteso dittatore buono. Nella consapevolezza del fatto che la Costituzione non ha ancora perso la propria attualità, e che la “rivoluzione promessa” teorizzata da Calamandrei deve essere ancora completata.
Enrico Palmas
Carlo Dore jr.
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