IL METODO DEMOCRATICO E LA “TEORIA DEL CALCIONE”
Le dimissioni del Presidente Soru costituiscono l’ennesima conferma della frattura che da mesi divide il centro-sinistra sardo, frattura venuta in essere a seguito della vittoria di Antonello Cabras alle primarie per la leadership del PD svoltesi nell’ottobre del 2007, ed ulteriormente alimentata dalla “guerra delle carte bollate” divampata dopo elezione di Francesca Barracciu alla segreteria regionale del nuovo soggetto politico.
Indipendentemente da ogni valutazione relativa al merito del provvedimento in ordine al quale si è consumato l’ultimo (e forse definitivo) strappo tra il Governatore e l’ala riformista della maggioranza di governo, una seria analisi dei fatti che stanno animando la fase conclusiva dell’attuale legislatura non può che muovere da due considerazioni fondamentali.
In primo luogo, contrariamente a quanto sostenuto da Paolo Maninchedda nel suo intervento sul “Giornale di Sardegna” dello scorso giovedì, le dimissioni del Presidente della Giunta non devono essere interpretate come la reazione incontrollata ed un po’ isterica di un monarca ormai senza corona, urtato nel suo smisurato ego dall’atteggiamento di quei sudditi che si sono, per una volta, rifiutati “di fare la Sua volontà”. Al contrario, queste dimissioni rappresentano un atto dovuto, alla luce delle regole che presiedono al funzionamento di una democrazia degna di tale nome: posto che l’Esecutivo risponde al Consiglio delle scelte che ispirano il suo operato, il Presidente della Giunta è tenuto a dimettersi se riscontra una rottura del vincolo fiduciario in relazione ad un profilo qualificante del suo programma come il governo del territorio.
In secondo luogo, si deve rilevare come una parte consistente dell’area democratica isolana sembra avere ormai sposato quella che potremmo definire “la teoria del calcione”: in base a questa corrente di pensiero, per la sinistra sarda sarebbe preferibile sopportare cinque (o dieci) lunghi anni di opposizione piuttosto che sostenere la corsa di Soru verso la riconferma a Villa Devoto. In altri termini, sarebbe auspicabile che l’elettorato tirasse il classico calcione a Mr. Tiscali ed alla sua vocazione di Uomo solo al comando, e pazienza se questa operazione finirà con lo spianare alla destra la strada verso il Governo della Regione. Le responsabilità della sconfitta non sarebbero imputabili a chi ha manifestato dissenso verso la politica dell’Esecutivo, ma a chi ha generato questo dissenso deludendo puntualmente tutte le aspettative maturate dopo la travolgente vittoria del 2004.
Premesso che, specie in questa particolare fase storica, tutte le opinioni meritano di essere esaminate con grande rispetto e senso dell’equilibrio, quella fetta di popolo progressista che ancora dispone della forza necessaria per non voltare le spalle alla politica ora ha il dovere di domandarsi: possiamo accettare una simile costruzione? Possiamo chiudere gli occhi e contribuire, seppure tramite una mera omissione, a riconsegnare la Sardegna nelle mani dei sodali del Caimano?
La risposta è: no, non possiamo. Lo impedisce la nostra storia, la storia delle tante battaglie combattute dalle forze della sinistra sarda (in cui rientra a pieno diritto anche quella componente del Partito Sardo d’Azione che tuttora rifiuta di recepire l’assunto in base al quale la differenza tra destra e sinistra sarebbe definitivamente venuta meno) a difesa dei valori della democrazia, del lavoro e della giustizia sociale. Lo impedisce ancor più il nostro presente, un presente in cui siamo chiamati a mobilitarci contro la destra delle leggi ad personam e del razzismo strisciante, della demolizione dell’istruzione pubblica e dello smantellamento di ogni forma di welfare state.
Tutto ciò premesso, la crisi del centro-sinistra in Sardegna non può essere risolta con la costante delegittimazione del Governatore in carica, con la guerra delle carte bollate o con la teoria del calcione: questa crisi si risolve, più semplicemente, operando con metodo democratico. Al termine di un’esperienza di governo caratterizzata da ombre e luci, Soru si propone per il secondo mandato, sulla base di un progetto politico non condiviso da parte della sua attuale maggioranza. Bene: le varie anime del fronte anti-soriano riflettano sull’opportunità di avanzare una candidatura credibile, capace come tale di declinare una proposta alternativa rispetto a quella prospettata da Mr. Tiscali.
Se questa alternativa esiste, ben vengano le primarie di coalizione, se aperte ai soli tesserati dei partiti di riferimento e soprattutto se regolate in modo tale da risultare impermeabili alle eventuali azioni di disturbo di qualche manipolo di berluscones in libera uscita. Ma se questa alternativa non è al momento configurabile, allora la leadership di Soru deve essere riconosciuta come l’unica strada percorribile per affrontare una tornata elettorale che i democratici potrebbero paradossalmente vincere, una volta superate divisioni e lotte intestine.
Dinanzi ad un simile status quo, anche i principali oppositori del Presidente sarebbero chiamati a favorire quel “ritorno alla politica” di cui la Sardegna avverte disperatamente bisogno, concorrendo all’elaborazione di un programma di governo in grado di ricompattare l’elettorato progressista sulle grandi questioni di rilevanza regionale, e contribuendo soprattutto alla formazione di liste finalmente aperte ai principali settori della società civile, presupposto indispensabile per avviare un effettivo rinnovamento di quella classe dirigente che da troppo tempo regge le sorti dell’Isola. Nella piena consapevolezza del fatto che il metodo democratico risulta, alla lunga, poco compatibile con la “teoria del calcione”.
Carlo Dore jr.
Le dimissioni del Presidente Soru costituiscono l’ennesima conferma della frattura che da mesi divide il centro-sinistra sardo, frattura venuta in essere a seguito della vittoria di Antonello Cabras alle primarie per la leadership del PD svoltesi nell’ottobre del 2007, ed ulteriormente alimentata dalla “guerra delle carte bollate” divampata dopo elezione di Francesca Barracciu alla segreteria regionale del nuovo soggetto politico.
Indipendentemente da ogni valutazione relativa al merito del provvedimento in ordine al quale si è consumato l’ultimo (e forse definitivo) strappo tra il Governatore e l’ala riformista della maggioranza di governo, una seria analisi dei fatti che stanno animando la fase conclusiva dell’attuale legislatura non può che muovere da due considerazioni fondamentali.
In primo luogo, contrariamente a quanto sostenuto da Paolo Maninchedda nel suo intervento sul “Giornale di Sardegna” dello scorso giovedì, le dimissioni del Presidente della Giunta non devono essere interpretate come la reazione incontrollata ed un po’ isterica di un monarca ormai senza corona, urtato nel suo smisurato ego dall’atteggiamento di quei sudditi che si sono, per una volta, rifiutati “di fare la Sua volontà”. Al contrario, queste dimissioni rappresentano un atto dovuto, alla luce delle regole che presiedono al funzionamento di una democrazia degna di tale nome: posto che l’Esecutivo risponde al Consiglio delle scelte che ispirano il suo operato, il Presidente della Giunta è tenuto a dimettersi se riscontra una rottura del vincolo fiduciario in relazione ad un profilo qualificante del suo programma come il governo del territorio.
In secondo luogo, si deve rilevare come una parte consistente dell’area democratica isolana sembra avere ormai sposato quella che potremmo definire “la teoria del calcione”: in base a questa corrente di pensiero, per la sinistra sarda sarebbe preferibile sopportare cinque (o dieci) lunghi anni di opposizione piuttosto che sostenere la corsa di Soru verso la riconferma a Villa Devoto. In altri termini, sarebbe auspicabile che l’elettorato tirasse il classico calcione a Mr. Tiscali ed alla sua vocazione di Uomo solo al comando, e pazienza se questa operazione finirà con lo spianare alla destra la strada verso il Governo della Regione. Le responsabilità della sconfitta non sarebbero imputabili a chi ha manifestato dissenso verso la politica dell’Esecutivo, ma a chi ha generato questo dissenso deludendo puntualmente tutte le aspettative maturate dopo la travolgente vittoria del 2004.
Premesso che, specie in questa particolare fase storica, tutte le opinioni meritano di essere esaminate con grande rispetto e senso dell’equilibrio, quella fetta di popolo progressista che ancora dispone della forza necessaria per non voltare le spalle alla politica ora ha il dovere di domandarsi: possiamo accettare una simile costruzione? Possiamo chiudere gli occhi e contribuire, seppure tramite una mera omissione, a riconsegnare la Sardegna nelle mani dei sodali del Caimano?
La risposta è: no, non possiamo. Lo impedisce la nostra storia, la storia delle tante battaglie combattute dalle forze della sinistra sarda (in cui rientra a pieno diritto anche quella componente del Partito Sardo d’Azione che tuttora rifiuta di recepire l’assunto in base al quale la differenza tra destra e sinistra sarebbe definitivamente venuta meno) a difesa dei valori della democrazia, del lavoro e della giustizia sociale. Lo impedisce ancor più il nostro presente, un presente in cui siamo chiamati a mobilitarci contro la destra delle leggi ad personam e del razzismo strisciante, della demolizione dell’istruzione pubblica e dello smantellamento di ogni forma di welfare state.
Tutto ciò premesso, la crisi del centro-sinistra in Sardegna non può essere risolta con la costante delegittimazione del Governatore in carica, con la guerra delle carte bollate o con la teoria del calcione: questa crisi si risolve, più semplicemente, operando con metodo democratico. Al termine di un’esperienza di governo caratterizzata da ombre e luci, Soru si propone per il secondo mandato, sulla base di un progetto politico non condiviso da parte della sua attuale maggioranza. Bene: le varie anime del fronte anti-soriano riflettano sull’opportunità di avanzare una candidatura credibile, capace come tale di declinare una proposta alternativa rispetto a quella prospettata da Mr. Tiscali.
Se questa alternativa esiste, ben vengano le primarie di coalizione, se aperte ai soli tesserati dei partiti di riferimento e soprattutto se regolate in modo tale da risultare impermeabili alle eventuali azioni di disturbo di qualche manipolo di berluscones in libera uscita. Ma se questa alternativa non è al momento configurabile, allora la leadership di Soru deve essere riconosciuta come l’unica strada percorribile per affrontare una tornata elettorale che i democratici potrebbero paradossalmente vincere, una volta superate divisioni e lotte intestine.
Dinanzi ad un simile status quo, anche i principali oppositori del Presidente sarebbero chiamati a favorire quel “ritorno alla politica” di cui la Sardegna avverte disperatamente bisogno, concorrendo all’elaborazione di un programma di governo in grado di ricompattare l’elettorato progressista sulle grandi questioni di rilevanza regionale, e contribuendo soprattutto alla formazione di liste finalmente aperte ai principali settori della società civile, presupposto indispensabile per avviare un effettivo rinnovamento di quella classe dirigente che da troppo tempo regge le sorti dell’Isola. Nella piena consapevolezza del fatto che il metodo democratico risulta, alla lunga, poco compatibile con la “teoria del calcione”.
Carlo Dore jr.
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