LODO ALFANO: CHI CONTROLLA I CONTROLLORI?
Una recente inchiesta giornalistica ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica il singolare episodio di una cena a cui avrebbero preso parte due giudici costituzionali (Luigi Mazzella e Paolo Maria Napoletano), il Presidente Berlusconi ed il Guardasigilli Alfano: l’informale convivio avrebbe costituito l’occasione idonea per discutere della, ormai prossima, decisione della Consulta sul c.d. “lodo salva-premier”, oltre che della prospettiva di una riforma della giustizia penale imperniata sulla separazione delle carriere di giudici ed avvocati dell’accusa e sulla ridefinizione delle prerogative del CSM.
La vicenda è stata oggetto di un’interrogazione parlamentare da parte di Antonio Di Pietro: dopo aver qualificato il suddetto convivio alla stregua di una “riunione carbonare e piduista”, l’ex PM ha infatti invitato il Presidente della Repubblica ad intervenire per salvaguardare il prestigio e l’integrità della Corte.
La replica del Colle non si è fatta attendere, attraverso una nota che metteva in evidenza l’impossibilità, per il Capo dello Stato, di incidere sull’autonomo svolgimento dell’attività della Consulta; e non si è fatta attendere la replica del giudice Mazzella, il quale, in una lettera aperta al Premier, ha rivendicato il diritto di invitare in casa propria “chi gli pare per parlare di ciò che gli pare”, ed ha confermato di non ravvisare l’esistenza di ragioni che lo possano indurre ad astenersi dal partecipare al giudizio in ordine alla legittimità costituzionale del lodo Alfano.
Ora, nel Paese in cui l’osservanza delle leggi viene sovente scambiata per dabbenaggine ed in cui la tracotanza è divenuta virtù, occorre valutare questo ennesimo corto-circuito istituzionale alla luce, obiettiva ed incondizionata, dei principi di diritto: formalmente, la posizione assunta dal Quirinale appare incontestabile, dato che il nostro ordinamento non attribuisce al Presidente della Repubblica il potere di intervenire sulla vita della Corte. E, per quanto paradossale possa apparire questa affermazione, neppure il giudice Mazzella mente quando afferma di non essere obbligato ad astenersi, posto che ai membri della Consulta non possono essere applicati né il disposto dell’art. 51 c.p.c. (che curiosamente impone, nel processo civile, l’obbligo di astenersi al giudice che sia “commensale abituale di una delle parti o dei difensori”), né il disposto dell’art. 36 c.p.p. (che, altrettanto curiosamente, con riguardo al processo penale prevede la necessità di astenersi per il giudice che ha dato consigli o ha manifestato il suo parere sull’oggetto del procedimento fuori dall’esercizio delle sue funzioni giudiziarie).
A questo punto, il lettore potrebbe però domandarsi: per quale motivo le ragioni di astensione previste per i giudici ordinari non valgono anche per i giudici costituzionali? Come è possibile che, sotto questo profilo, i giudici delle leggi siano sottoposti ad un regime processuale più blando di quello a cui è soggetto il giudice chiamato a dirimere una controversia condominale o a pronunciarsi su un furto di galline?
La risposta ad un simile quesito è più semplice di quanto si possa immaginare: il Giudice delle leggi non assume decisioni relative a particolari situazioni riconducibili a persone determinate; decide, appunto, sulla conformità di leggi o di atti equiparati ai principi contenuti nella Carta Fondamentale, sulla legittimità costituzionale di norme destinate ad applicarsi a tutti i cittadini che si trovano nella situazione in astratto delineata dalla norma stessa. Di conseguenza, né il legislatore costituente né il legislatore ordinario avevano ragione di prevedere la possibilità che le relazioni personali dei singoli componenti della Consulta potessero incidere sulla loro imparzialità di giudizio.
Il problema risiede nel fatto che il Lodo Alfano non può essere definito come una legge generale ed astratta: è una legge che mira a regolare la posizione particolare di “questo” Presidente del Consiglio, il quale, costituendosi nel giudizio nanti la Corte Costituzionale, finirà col difendere non tanto la legittimità di una norma di cui il suo Governo ha imposto l’approvazione, ma soprattutto il suo privato interesse a non essere sottoposto a giudizio nell’ambito di un processo penale già in atto nei suoi confronti.
Alla luce di questa ennesima variante della perversa commistione tra potere politico ed interesse privato che da anni inficia il corretto funzionamento della nostra democrazia, le dichiarazioni del giudice Mazzella, che non ha smentito né la sua partecipazione alla cena incriminata né la trattazione in tale sede degli argomenti di cui sopra, si collocano, per due ordini di ragioni, nettamente al di fuori delle regole che disciplinano il funzionamento della normale dialettica istituzionale.
In primo luogo, esse rivelano una sostanziale continuità tra giudici costituzionali, membri dell’esecutivo e della maggioranza parlamentare (ovvero sia, tra “controllori” e “controllati”) certamente poco compatibile con gli assetti delineati dal legislatore costituente. In secondo luogo, tali dichiarazioni rischiano di gettare un’ombra sulla decisione che la Corte assumerà su una legge (appunto il Lodo Alfano) che tanta incidenza ha avuto sulla vita politica del Paese.
Rebus sic stantibus, è infatti ipotizzabile che, mentre una decisione di rigetto della questione di legittimità sollevata in ordine alla legge in questione verrebbe accolta dall’opposizione come una conferma delle indebite pressioni praticate dal Governo su alcuni membri della Consulta, una pronuncia di accoglimento (con conseguente declaratoria di incostituzionalità) verrebbe interpretata dagli esponenti della maggioranza come una conseguenza delle immotivate polemiche innescate da parte dell’opinione pubblica a seguito di quella che lo stesso ministro Vito ha sostanzialmente liquidato come una irrilevante “bicchierata” tra amici.
Insomma, quale che sia l’esito della vicenda, ci sarà qualcuno legittimato a chiedere un controllo sull’attività dei controllori: troppo, anche per questa Italia in cui, volendo usare le parole del noto costituzionalista Roberto Bin, “la tracotanza domina nei palazzi del potere e – a dar retta alla stampa – anche nelle case private”.
Carlo Dore jr.
Una recente inchiesta giornalistica ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica il singolare episodio di una cena a cui avrebbero preso parte due giudici costituzionali (Luigi Mazzella e Paolo Maria Napoletano), il Presidente Berlusconi ed il Guardasigilli Alfano: l’informale convivio avrebbe costituito l’occasione idonea per discutere della, ormai prossima, decisione della Consulta sul c.d. “lodo salva-premier”, oltre che della prospettiva di una riforma della giustizia penale imperniata sulla separazione delle carriere di giudici ed avvocati dell’accusa e sulla ridefinizione delle prerogative del CSM.
La vicenda è stata oggetto di un’interrogazione parlamentare da parte di Antonio Di Pietro: dopo aver qualificato il suddetto convivio alla stregua di una “riunione carbonare e piduista”, l’ex PM ha infatti invitato il Presidente della Repubblica ad intervenire per salvaguardare il prestigio e l’integrità della Corte.
La replica del Colle non si è fatta attendere, attraverso una nota che metteva in evidenza l’impossibilità, per il Capo dello Stato, di incidere sull’autonomo svolgimento dell’attività della Consulta; e non si è fatta attendere la replica del giudice Mazzella, il quale, in una lettera aperta al Premier, ha rivendicato il diritto di invitare in casa propria “chi gli pare per parlare di ciò che gli pare”, ed ha confermato di non ravvisare l’esistenza di ragioni che lo possano indurre ad astenersi dal partecipare al giudizio in ordine alla legittimità costituzionale del lodo Alfano.
Ora, nel Paese in cui l’osservanza delle leggi viene sovente scambiata per dabbenaggine ed in cui la tracotanza è divenuta virtù, occorre valutare questo ennesimo corto-circuito istituzionale alla luce, obiettiva ed incondizionata, dei principi di diritto: formalmente, la posizione assunta dal Quirinale appare incontestabile, dato che il nostro ordinamento non attribuisce al Presidente della Repubblica il potere di intervenire sulla vita della Corte. E, per quanto paradossale possa apparire questa affermazione, neppure il giudice Mazzella mente quando afferma di non essere obbligato ad astenersi, posto che ai membri della Consulta non possono essere applicati né il disposto dell’art. 51 c.p.c. (che curiosamente impone, nel processo civile, l’obbligo di astenersi al giudice che sia “commensale abituale di una delle parti o dei difensori”), né il disposto dell’art. 36 c.p.p. (che, altrettanto curiosamente, con riguardo al processo penale prevede la necessità di astenersi per il giudice che ha dato consigli o ha manifestato il suo parere sull’oggetto del procedimento fuori dall’esercizio delle sue funzioni giudiziarie).
A questo punto, il lettore potrebbe però domandarsi: per quale motivo le ragioni di astensione previste per i giudici ordinari non valgono anche per i giudici costituzionali? Come è possibile che, sotto questo profilo, i giudici delle leggi siano sottoposti ad un regime processuale più blando di quello a cui è soggetto il giudice chiamato a dirimere una controversia condominale o a pronunciarsi su un furto di galline?
La risposta ad un simile quesito è più semplice di quanto si possa immaginare: il Giudice delle leggi non assume decisioni relative a particolari situazioni riconducibili a persone determinate; decide, appunto, sulla conformità di leggi o di atti equiparati ai principi contenuti nella Carta Fondamentale, sulla legittimità costituzionale di norme destinate ad applicarsi a tutti i cittadini che si trovano nella situazione in astratto delineata dalla norma stessa. Di conseguenza, né il legislatore costituente né il legislatore ordinario avevano ragione di prevedere la possibilità che le relazioni personali dei singoli componenti della Consulta potessero incidere sulla loro imparzialità di giudizio.
Il problema risiede nel fatto che il Lodo Alfano non può essere definito come una legge generale ed astratta: è una legge che mira a regolare la posizione particolare di “questo” Presidente del Consiglio, il quale, costituendosi nel giudizio nanti la Corte Costituzionale, finirà col difendere non tanto la legittimità di una norma di cui il suo Governo ha imposto l’approvazione, ma soprattutto il suo privato interesse a non essere sottoposto a giudizio nell’ambito di un processo penale già in atto nei suoi confronti.
Alla luce di questa ennesima variante della perversa commistione tra potere politico ed interesse privato che da anni inficia il corretto funzionamento della nostra democrazia, le dichiarazioni del giudice Mazzella, che non ha smentito né la sua partecipazione alla cena incriminata né la trattazione in tale sede degli argomenti di cui sopra, si collocano, per due ordini di ragioni, nettamente al di fuori delle regole che disciplinano il funzionamento della normale dialettica istituzionale.
In primo luogo, esse rivelano una sostanziale continuità tra giudici costituzionali, membri dell’esecutivo e della maggioranza parlamentare (ovvero sia, tra “controllori” e “controllati”) certamente poco compatibile con gli assetti delineati dal legislatore costituente. In secondo luogo, tali dichiarazioni rischiano di gettare un’ombra sulla decisione che la Corte assumerà su una legge (appunto il Lodo Alfano) che tanta incidenza ha avuto sulla vita politica del Paese.
Rebus sic stantibus, è infatti ipotizzabile che, mentre una decisione di rigetto della questione di legittimità sollevata in ordine alla legge in questione verrebbe accolta dall’opposizione come una conferma delle indebite pressioni praticate dal Governo su alcuni membri della Consulta, una pronuncia di accoglimento (con conseguente declaratoria di incostituzionalità) verrebbe interpretata dagli esponenti della maggioranza come una conseguenza delle immotivate polemiche innescate da parte dell’opinione pubblica a seguito di quella che lo stesso ministro Vito ha sostanzialmente liquidato come una irrilevante “bicchierata” tra amici.
Insomma, quale che sia l’esito della vicenda, ci sarà qualcuno legittimato a chiedere un controllo sull’attività dei controllori: troppo, anche per questa Italia in cui, volendo usare le parole del noto costituzionalista Roberto Bin, “la tracotanza domina nei palazzi del potere e – a dar retta alla stampa – anche nelle case private”.
Carlo Dore jr.
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