PERCHE’ SOSTENGO BERSANI
Con la conclusione di questa lunghissima tornata elettorale – iniziata con la imprevista sconfitta di Renato Soru nella corsa alla presidenza della Regione Sardegna e completata con i tiratissimi successi riportati a Firenze, Bologna e Bari -, gli appartenenti a quell’ampia fetta di popolo progressista che (spesso più per disperazione che per convinzione) trovano nel PD il loro attuale punto di riferimento devono ancora una volta interrogarsi su quale prospettiva perseguire nell’immediato futuro.
Mentre Bersani si candida, Franceschini replica, Veltroni ritorna, D’Alema ragiona, la Serracchiani sceglie e i TeoDem si agitano, provo a fornire il mio contributo al dibattito in corso sui prossimi assetti del centro-sinistra, partendo da un immagine tratta dall’ultima campagna elettorale: l’immagine di un militante diessino che, allontanandosi dalla piazza in cui aveva appena avuto luogo una manifestazione a sostegno di Flavio Del Bono, mormorava sconsolato: “Ma insomma, questo partito si regge grazie ai nostri voti, ai voti della sinistra…eppure…abbiamo per segretario un ex democristiano; abbiamo proposto candidati provenienti dalla Margherita a Roma, Bologna, Firenze, Napoli… Ma dove sono finiti i nostri? Perché abbiamo bisogno delle veline per mettere paura a Berlusconi?”.
Le riflessioni di quel militante contengono, a mio avviso, i due punti centrali su cui si impernia la sfida che i democratici sono oggi chiamati ad affrontare: da un lato la certificazione del fallimento del “veltronismo” e del modello del partito autosufficiente; d’altro lato, la necessità di dare vita ad un partito “vero”, prima ancora che ad un partito “nuovo”.
Già dall’analisi del famoso discorso del Lingotto, emergeva infatti come la filosofia veltroniana del “ma anche”, del partito dei lavoratori e degli imprenditori, dell’infelice ed un po’ greve italianizzazione degli slogan di Obama avrebbe di fatto chiuso i progressisti italiani nel più classico “cul de sac” , creando una forza politica incapace - a causa delle inevitabili divisioni interne e della palese mancanza di una linea unitaria– di prendere posizioni chiare sulle grandi questioni di rilevanza nazionale.
Alla luce di un simile status quo, scelsi di non partecipare alle primarie dell’ottobre del 2007, limitandomi ad accordare il mio voto al Partito Democratico nel tentativo di arginare l’onda berlusconiana che si accingeva a sommergere il Paese. Tuttavia, le conseguenze derivanti dall’attuazione della strategia elaborata dall’ ex Sindaco di Roma sono oggi sotto gli occhi di tutti: sommaria liquidazione della leadership di Romano Prodi (a cui evidentemente veniva imputatato il peccato mortale di aver vinto tutte le elezioni cui aveva partecipato); astensionismo crescente; gli operai di Mirafiori ed i portuali di Livorno che votano i massa per IDV e Lega Nord; amministratori apprezzati come Illy e Soru condannati alla sconfitta dalle divisioni maturate in seno alla loro stessa maggioranza; Berlusconi messo alle strette non dai rilievi di un’opposizione silente ai limiti dell’afonia, ma dalle rivelazioni di una pattuglia di escort in carriera; Veltroni costretto ad abbandonare in tutta fretta il quatier generale del Nazareno.
All’indomani di una consultazione amministrativa ispirata alla logica del “si salvi chi può!”, è dunque necessario individuare la strada da cui ripartire nell’elaborazione di una proposta politica in grado di guidare l’Italia fuori dalle sabbie mobili in cui si sta rovinosamente arenando l’attuale esperienza di governo del Cavaliere. In questo senso, per ridare speranza ad un Paese sull’orlo di una crisi politica e morale forse irreversibile, non bastano qualche faccia nuova ed i generici richiami ad un rinnovamento finora percepibile solo in alcune sporadiche riunioni di militanti lastricati di buone intenzioni: bisogna creare, entro tempi brevi, un partito degno di tale nome.
Occorre creare un partito (lo si chiami PDS, DS, o PD: le sigle ormai lasciano il tempo che trovano) capace di intercettare i consensi degli appartenenti a quella vasta area della c.d. “sinistra diffusa” che attualmente versano, per usare le parole di Ilvo Diamanti, nella triste condizione di esuli in terra straniera, fungendo da elemento-cardine di una forte coalizione che sappia riproporre lo spirito del grande Ulivo del 1996.
Occorre creare una partito saldamente radicato sul territorio, non più equidistante tra sindacato ed imprese ma presente nel mondo del lavoro e vicino alle esigenze dei lavoratori; occorre creare un partito etico, schierato a difesa della Magistratura e delle istituzioni di garanzia, messe quotidianamente sotto attacco dall’arroganza di un premier che una legge inconcepibile presso qualunque democrazia occidentale rende di fatto legibus solutus; occorre creare un partito laico, che sappia affrontare i temi connessi alla tutela delle libertà civili proponendo soluzioni emendate da pregiudizi di natura morale o religiosa.
Di questo insieme di istanze - gridate a tutta forza dal popolo progressista presente nelle piazze, nei circoli, nei blog ed in tutti i luoghi di aggregazione che la politica moderna mette a disposizione di elettori e militanti - né Franceschini (a cui va riconosciuto il merito di avere di avere svolto con dignità il ruolo di traghettatore assegnatogli dopo il fallimento della stagione veltroniana, stagione della quale era stato comunque attivo protagonista) né la tanto onesta quanto ingenua Debora Serracchiani sembrano avere preso integralmente consapevolezza, evidentemente ignari del fatto che ogni operazione di rinnovamento di una classe dirigente non può prescindere dalla costruzione di un partito ancorato a valori che, al momento, in casa democratica non è dato rilevare.
Di queste istanze sembra invece essersi fatto effettivo interprete Pierluigi Bersani, eterno contestatore del modello del “partito liquido” e convinto sostenitore della necessità di ricreare, attorno al PD, una nuova alleanza di centro-sinistra (basata sull’intesa tra ex prodiani, ex diessini e sul contributo di alcune delle forze che al momento si collocano a sinistra del Partito Democratico) per proporre quella credibile alternativa alla destra berlusconiana di cui attualmente si avverte la mancanza.
Dopo anni di incertezze e di divisioni, sento di condividere questo progetto, anche se non nascondo le tante zone d’ombra che il medesimo presenta, con particolare riferimento agli uomini che saranno chiamati, soprattutto a livello locale, a gestirne l’attuazione. Comunque, alle primarie di ottobre, mi presenterò al seggio: voterò per Bersani, e per sostenere l’idea di un PD qualificabile come moderno partito di sinistra, sperando che anche questa ennesima speranza non si trasformi nell’ennesima delusione.
Con la conclusione di questa lunghissima tornata elettorale – iniziata con la imprevista sconfitta di Renato Soru nella corsa alla presidenza della Regione Sardegna e completata con i tiratissimi successi riportati a Firenze, Bologna e Bari -, gli appartenenti a quell’ampia fetta di popolo progressista che (spesso più per disperazione che per convinzione) trovano nel PD il loro attuale punto di riferimento devono ancora una volta interrogarsi su quale prospettiva perseguire nell’immediato futuro.
Mentre Bersani si candida, Franceschini replica, Veltroni ritorna, D’Alema ragiona, la Serracchiani sceglie e i TeoDem si agitano, provo a fornire il mio contributo al dibattito in corso sui prossimi assetti del centro-sinistra, partendo da un immagine tratta dall’ultima campagna elettorale: l’immagine di un militante diessino che, allontanandosi dalla piazza in cui aveva appena avuto luogo una manifestazione a sostegno di Flavio Del Bono, mormorava sconsolato: “Ma insomma, questo partito si regge grazie ai nostri voti, ai voti della sinistra…eppure…abbiamo per segretario un ex democristiano; abbiamo proposto candidati provenienti dalla Margherita a Roma, Bologna, Firenze, Napoli… Ma dove sono finiti i nostri? Perché abbiamo bisogno delle veline per mettere paura a Berlusconi?”.
Le riflessioni di quel militante contengono, a mio avviso, i due punti centrali su cui si impernia la sfida che i democratici sono oggi chiamati ad affrontare: da un lato la certificazione del fallimento del “veltronismo” e del modello del partito autosufficiente; d’altro lato, la necessità di dare vita ad un partito “vero”, prima ancora che ad un partito “nuovo”.
Già dall’analisi del famoso discorso del Lingotto, emergeva infatti come la filosofia veltroniana del “ma anche”, del partito dei lavoratori e degli imprenditori, dell’infelice ed un po’ greve italianizzazione degli slogan di Obama avrebbe di fatto chiuso i progressisti italiani nel più classico “cul de sac” , creando una forza politica incapace - a causa delle inevitabili divisioni interne e della palese mancanza di una linea unitaria– di prendere posizioni chiare sulle grandi questioni di rilevanza nazionale.
Alla luce di un simile status quo, scelsi di non partecipare alle primarie dell’ottobre del 2007, limitandomi ad accordare il mio voto al Partito Democratico nel tentativo di arginare l’onda berlusconiana che si accingeva a sommergere il Paese. Tuttavia, le conseguenze derivanti dall’attuazione della strategia elaborata dall’ ex Sindaco di Roma sono oggi sotto gli occhi di tutti: sommaria liquidazione della leadership di Romano Prodi (a cui evidentemente veniva imputatato il peccato mortale di aver vinto tutte le elezioni cui aveva partecipato); astensionismo crescente; gli operai di Mirafiori ed i portuali di Livorno che votano i massa per IDV e Lega Nord; amministratori apprezzati come Illy e Soru condannati alla sconfitta dalle divisioni maturate in seno alla loro stessa maggioranza; Berlusconi messo alle strette non dai rilievi di un’opposizione silente ai limiti dell’afonia, ma dalle rivelazioni di una pattuglia di escort in carriera; Veltroni costretto ad abbandonare in tutta fretta il quatier generale del Nazareno.
All’indomani di una consultazione amministrativa ispirata alla logica del “si salvi chi può!”, è dunque necessario individuare la strada da cui ripartire nell’elaborazione di una proposta politica in grado di guidare l’Italia fuori dalle sabbie mobili in cui si sta rovinosamente arenando l’attuale esperienza di governo del Cavaliere. In questo senso, per ridare speranza ad un Paese sull’orlo di una crisi politica e morale forse irreversibile, non bastano qualche faccia nuova ed i generici richiami ad un rinnovamento finora percepibile solo in alcune sporadiche riunioni di militanti lastricati di buone intenzioni: bisogna creare, entro tempi brevi, un partito degno di tale nome.
Occorre creare un partito (lo si chiami PDS, DS, o PD: le sigle ormai lasciano il tempo che trovano) capace di intercettare i consensi degli appartenenti a quella vasta area della c.d. “sinistra diffusa” che attualmente versano, per usare le parole di Ilvo Diamanti, nella triste condizione di esuli in terra straniera, fungendo da elemento-cardine di una forte coalizione che sappia riproporre lo spirito del grande Ulivo del 1996.
Occorre creare una partito saldamente radicato sul territorio, non più equidistante tra sindacato ed imprese ma presente nel mondo del lavoro e vicino alle esigenze dei lavoratori; occorre creare un partito etico, schierato a difesa della Magistratura e delle istituzioni di garanzia, messe quotidianamente sotto attacco dall’arroganza di un premier che una legge inconcepibile presso qualunque democrazia occidentale rende di fatto legibus solutus; occorre creare un partito laico, che sappia affrontare i temi connessi alla tutela delle libertà civili proponendo soluzioni emendate da pregiudizi di natura morale o religiosa.
Di questo insieme di istanze - gridate a tutta forza dal popolo progressista presente nelle piazze, nei circoli, nei blog ed in tutti i luoghi di aggregazione che la politica moderna mette a disposizione di elettori e militanti - né Franceschini (a cui va riconosciuto il merito di avere di avere svolto con dignità il ruolo di traghettatore assegnatogli dopo il fallimento della stagione veltroniana, stagione della quale era stato comunque attivo protagonista) né la tanto onesta quanto ingenua Debora Serracchiani sembrano avere preso integralmente consapevolezza, evidentemente ignari del fatto che ogni operazione di rinnovamento di una classe dirigente non può prescindere dalla costruzione di un partito ancorato a valori che, al momento, in casa democratica non è dato rilevare.
Di queste istanze sembra invece essersi fatto effettivo interprete Pierluigi Bersani, eterno contestatore del modello del “partito liquido” e convinto sostenitore della necessità di ricreare, attorno al PD, una nuova alleanza di centro-sinistra (basata sull’intesa tra ex prodiani, ex diessini e sul contributo di alcune delle forze che al momento si collocano a sinistra del Partito Democratico) per proporre quella credibile alternativa alla destra berlusconiana di cui attualmente si avverte la mancanza.
Dopo anni di incertezze e di divisioni, sento di condividere questo progetto, anche se non nascondo le tante zone d’ombra che il medesimo presenta, con particolare riferimento agli uomini che saranno chiamati, soprattutto a livello locale, a gestirne l’attuazione. Comunque, alle primarie di ottobre, mi presenterò al seggio: voterò per Bersani, e per sostenere l’idea di un PD qualificabile come moderno partito di sinistra, sperando che anche questa ennesima speranza non si trasformi nell’ennesima delusione.
Carlo Dore jr.
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