“C’è un filo rosso che lega tutti i grandi delitti: un unico progetto politico”. Così scriveva Rocco Chinnici, indimenticabile capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, poco prima di venire trucidato dal tritolo dei corleonesi. Un filo rosso che lega i grandi delitti, un unico progetto politico: chissà se le parole dell’eroico maestro di Giovanni Falcone sono tornate alla mente del Procuratore nazionale antimafia Grasso quando, nel commemorare la strage di via dei Georgofili, ha dichiarato che la strategia posta in atto dalla Mafia attraverso gli attentati del 1993 era finalizzata «a causare disordine per dare la possibilità ad una entità esterna di proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale di Tangentopoli», ad «agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire» le richieste di Cosa Nostra.
Bombe che esplodono, oscure entità che premono per emergere, eroi e barbe finte, coppole e colletti bianchi: tutte componenti di un progetto volto a far confluire un Paese allo sbando “nelle mani giuste”. Giancarlo De Cataldo ha già provato a raccontare questa storia in uno dei suoi ultimi romanzi, perché un romanzo è la storia d’Italia a partire dagli anni’60: un romanzo criminale, nel quale si fronteggiano guardie e ladri, bande armate e servitori dello Stato, complotti e grandi ideali, veloci strette di mano e compromessi storici. “C’è un filo rosso che lega tutti i grandi delitti: un unico progetto politico”. Ma quale progetto? Teso al perseguimento di quale obiettivo? Cosa accadde in Italia tra il 1992 e il 1993?
Accadde che un pool di magistrati molto coraggiosi e molto indipendenti riuscì a disvelare il sistema di corruzione istituzionalizzata che alimentava le forze del pentapartito, soffocando così nel suo stesso fango quella classe dirigente che, per quasi mezzo secolo, aveva governato le sorti di una Nazione drammaticamente sospesa tra est e ovest, ridotta a terra di confine nell’eterna guerra tra la CIA e i carri armati sovietici. Accadde che le tesi di Falcone vennero recepite nella sentenza con cui la Cassazione metteva fine al maxi-processo iniziato nell’astronave verde dell’Ucciardone, trasformando così in verità giudiziaria quello che fino ad allora veniva semplicemente liquidato come il “teorema Buscetta”. La Prima Repubblica era prossima al tracollo, la Mafia perdeva i suoi riferimenti tradizionali: la Mafia era ferita, la Mafia doveva reagire, rivoltandosi contro amici e nemici.
E’ in questo contesto che muore Salvo Lima, sindaco responsabile del “sacco di Palermo” descritto da più parti come il garante del patto tra gli uomini d’onore ed una classe politica rivelatasi alla lunga poco affidabile; è in questo contesto che muore Giovanni Falcone, simbolo per eccellenza della lotta alla criminalità organizzata capace di rappresentare tutto il desiderio di riscatto di una Sicilia non disposta a sottostare in eterno al dominio delle cosche; è in questo contesto che muore Paolo Borsellino, al quale non poteva essere perdonata la colpa di essere arrivato troppo vicino al cuore dei segreti di Cosa Nostra. Sono i giorni di Capaci e di Via D’Amelio; sono i giorni delle lacrime e delle lenzuolate dei palermitani in lutto; sono i giorni dell’attentatuni.
Ma ancora non bastava: c'era un Paese in movimento da riconquistare, animato da un'improvvisa spinta legalitaria che, da Roma a Napoli, da Bologna a Palermo, favoriva l'ascesa al potere di alcune forze politiche rimaste fino a quel momento confinate nel recinto dell'opposizione. Quella spinta doveva esaurirsi, quella stagione doveva finire, un nuovo ordine sociale doveva essere ricreato in tempi brevi. Ecco allora riaffiorare, nelle ricostruzioni di Pietro Grasso e del Presidente Emerito Carlo Azeglio Ciampi, quelle tre maledette parole che troppo spesso hanno influenzato i momenti della storia italiana recente, dirigendo la trama delle pagine di svolta del nostro romanzo criminale: strategia della tensione.
E così, nel buio dell'ennesima notte della Repubblica, esplode la basilica di San Giovanni in Laterano, esplode la chiesa del Velabro, esplode il museo di via Palestro a Milano. E mentre l'Italia tremava sotto la minaccia di altre deflagrazioni programmate per mietere “centinaia di vittime”, lo stesso Presidente Ciampi ricorda come, di fronte all'improvviso black out che aveva lasciato per ore Palazzo Chigi nel più totale isolamento, un unico pensiero aveva iniziato a farsi largo nella sua mente: la democrazia era in pericolo, il rischio di un golpe era concreto.
Poi, dopo il fallito attentato allo Stadio Olimpico, di colpo cala il silenzio: di bombe non ce ne sono più. Perchè? Forse la Mafia aveva capito che la strategia stragista non era indicata per portare avanti le rivendicazioni contenute nel famoso “papello” consegnato da don Vito Ciancimino al generale Mori, che il progetto di Riina di “procedere alla corleonese”, facendo la guerra per fare la pace, avrebbe finito con l'aprire un conflitto con lo Stato alla lunga insostenibile anche per l'ala più estremista di Cosa Nostra.
O forse, sempre utilizzando le parole del procuratore Grasso, la Mafia voleva effettivamente favorire quella “entità esterna” che premeva per «proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale di Tangentopoli» . C'è stato davvero un nuovo patto tra coppole e colletti bianchi? La mafia ha davvero cercato di “agevolare l'avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste”? Con la fine di Mani Pulite, con l'avvento della Seconda Repubblica, l'Italia è effettivamente confluita “nelle mani giuste”, come ipotizzato nel bellissimo libro di De Cataldo?
A questi interrogativi, al momento, non è possibile dare risposta. “C’è un filo rosso che lega tutti i grandi delitti: un unico progetto politico”: chissà se qualche giornalista indipendente e curioso, qualche magistrato rigoroso e determinato, qualche politico animato dal più autentico spirito democratico riuscirà un giorno ad individuare la logica di questo progetto, a ripercorrere la trama che lungo quel filo si snoda. Per ora, è solo la pagina di un romanzo: l'ennesima pagina nera di quell'incredibile romanzo criminale in cui si identifica la storia italiana del dopoguerra.
Carlo Dore jr.
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