IL LEADER E IL CAPOBANDA
Quando le tracce dei temi assegnati agli studenti impegnati negli esami di maturità sono state diffuse dai vari mezzi di informazione, un’improvvisa ondata di stupore e sconcerto ha pervaso l’animo di tutti gli intellettuali democratici del Paese.
La proposta di elaborato mediante cui si chiedeva ai candidati di esaminare il “rapporto tra giovani e politica nel pensiero dei grandi leader” partendo da una frase pronunciata da Mussolini (la cui posizione veniva artificiosamente equiparata a quella di Togliatti, di Moro e perfino di Giovanni Paolo II) all’indomani del delitto Matteotti non costituisce soltanto l’ennesimo prodotto del goffo revisionismo in salsa berlusconiana, già manifestatosi nella parabola del “dittatore benigno che mandava gli oppositori in vacanza nelle località di confine”.
No, quel tema rappresenta qualcosa di peggio: rappresenta la definitiva conferma della volontà di attribuire la qualifica di leader al capo di una forza politica che – oltre a descrivere con oratoria marziale le imprese criminali di militi e gerarchi come la sana estrinsecazione del vitalismo proprio della migliore gioventù italica - si assumeva pubblicamente la responsabilità di un omicidio, certificando la totale immersione dell’Italia nella palude di un regime fatto di fuoco e camice nere, discorsi da operetta e sistematiche rappresaglie, sangue e olio di ricino. Rappresenta - come lucidamente ha osservato Adriano Prosperi nel suo articolo pubblicato su “La Repubblica” dello scorso giovedì - l’estremo tentativo di legittimazione della leadership di un capobanda.
Forse, anche nell’epoca dell’anti-ideologismo e del superamento dei partiti tradizionali, della rinnovata esaltazione dell’Uomo solo al comando e della trasformazione della militanza politica in tifo da stadio, sarebbe stato preferibile che i funzionari del ministro Gelmini avessero chiesto agli studenti di riflettere su altre parole che la storia italiana propone, di esporre il loro pensiero su un altro discorso: un discorso che si è elevato al di sopra delle grida delle squadre di azione, dei lamenti di un uomo morente, delle teorie volte a mettere sullo stesso piano vincitori e vinti per continuare a trasmettere lo straordinario messaggio di libertà in esso contenuto. Il discorso di un leader vero che riuscì, contrapponendo ancora una volta la forza della ragione all’ottusa pratica delle ragioni della forza, a disvelare in tutta la sua mostruosa enormità il castello di violenze, bugie, e sopraffazioni su cui si fondava l’autorità del Duce.
Quel leader si chiamava Giacomo Matteotti, e la sua storia è proprio la storia di un discorso. Un discorso che il deputato socialista chiese di pronunciare “né prudentemente, né imprudentemente, ma parlamentarmente”, nel vano tentativo di riscattare, seppur per pochi istanti, la dignità di una Camera dei deputati già troppo simile ad un bivacco di manipoli. Un discorso mediante il quale, oltre alle molteplici anomalie che caratterizzavano il funzionamento di una legge elettorale liberticida, venivano denunciate le sistematiche intimidazioni, le brutali ritorsioni e financo gli omicidi a sangue freddo che avevano caratterizzato le elezioni del 1924, mentre la parola “regime” iniziava a rimbombare, sinistra ed inquietante, tra i banchi delle forze di opposizione.
Un discorso la cui essenza è concentrata in poche e semplici battute, quasi gridate, con rabbia e disperazione, dal leader in faccia al Capobanda: «Noi deploriamo che solo il nostro popolo nel Mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi, anche con l’opera nostra. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità, domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza».
Popolo, libertà, dignità. Queste erano le parole di Giacomo Matteotti, le parole del leader dalla fine era già scritta: il bivacco di manipoli avrebbe ben presto fatto valere la sua legge, le ragioni della forza avrebbero soffocato la forza della ragione nel sangue di un uomo visto come una minaccia da un regime debole.
Chissà in quale modo uno studente prossimo alla maturità avrebbe interpretato quelle parole. Forse con rabbia, forse con una lacrima, forse con un sorriso, forse con un applauso. La rabbia, le lacrime, i sorrisi e gli applausi che i democratici di tutta Italia da quasi un secolo tributano al meraviglioso, indelebile ricordo di Giacomo Matteotti, al ricordo del leader che per primo trovò il coraggio di rivelare ad un Paese allo sbando come, sotto il doppio petto presidenziale da cui era incorniciata la volitiva mascella del Duce, continuasse in verità a pulsare l’anima nera del Capobanda.
Carlo Dore jr.
1 commento:
Sicuramente l’autore ha ragione, ma se fosse capitato a me un titolo del genere alla maturità (30 anni fa) mi sarebbe venuta in mente non una equiparazione morale fra i 4 nomi (che Mussolini sia stato di fatto un leader mi sembra un dato di fatto ), ma un equiparazione puramente storica e l’opportunità di fare un confronto tracciando una netta linea di demarcazione.
Il titolo proposto consente di fatto di tracciare una netta linea di demarcazione affiancando da un lato tre opinioni di elevato valore morale, Togliatti sull’impegno verso un ideale e la necessità di aprire gli occhi ai giovani sulle responsabilità del passato e su doveri morali verso il futuro, il papa che evidenzia la necessità della contestazione da parte dei giovani come dovere morale dei giovani verso l’acquisizione ed il rinnovamento delle tradizione, Moro sulla necessità di aprire all’impegno dei giovani in nome della libertà e ponendo dall’altro lato della linea un esaltato che parla ad una pletora di esaltati parlando dei suoi giovani che non sono “solo” manganello ed olio di ricino (ma in gran parte si e sene vanta!) senza perdere tempo a parlare di valori (e di quali socialismo? Lo aveva tradito da poco, liberà? La stava eliminando , dibattito per la valorizzazione ed il rinnovamento delle tradizioni tramite la contestazione? Ma dove). Un esaltato che rivendica il suo diritto di leader per acclamazione diretta del popolo in nome di meriti non citati (se è stato solo male impiccatemi ma non dice quale è stato il bene per cui non dovrebbe essere impiccato e fa male perché la corda non ha atteso invano), un esaltato che rivendica impunità per il suo ruolo (io studente avrei sicuramente fatto un parallelo e ho avuto diverse riduzioni nei voti per avere espresso opinioni non conformi) e la rivendica sempre per acclamazione e non come risultato di un procedimento legale (uguale!).
Dall’altra parte lo studente avrebbe avuto ampio spazio per parlare di valori veri (socialismo, libertà, contestazione), problemi storici quali insegnare ai giovani cosa era stato il passato recente nel primo dopoguerra, problema che si ripropone oggi se vogliamo paragonare l’epoca il cui la televisione aveva unito l’Italia nelle lingua e nella conoscenza (TV7 e il teatro erano di fatto”obbligatori”) all’epoca in cui la televisione insegna il dibattito urlato su temi vacui, le varie vallettine sgambettanti malamente (all’epoca le ballerine della rai erano un vero corpo di ballo) come emblema del successo; problemi storici come il tentativo di presentare il 68 come padre degli anni di piombo e non come motore di revisione della tradizione e procreatore di una generazione di giovani che avevano fatto dell’impegno una bandiera.
Io avrei gradito il tema proposto (ma ero una testa calda) più di quello su Matteotti troppo leftly politically correct.
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