“Se
alle primarie vince Bersani, sono pronto a non ricandidarmi. Si può fare
politica anche fuori dal Parlamento”. Massimo D’Alema affronta quello che
dovrebbe essere il passo Estremo del suo lunghissimo cursus honorum con la superba indifferenza di un leader che, nel
bene e nel male, ha saputo interpretare un ruolo da protagonista di primo piano
nella storia italiana degli ultimi vent’anni. Lo stile gelido e sferzante è lo
stesso che incantò Togliatti e Berlinguer: le urla un po’ sguaiate dei fanatici
della rottamazione svaniscono sotto il peso di parole scelte con la bilancia di
precisione; gli slogan sparati sulle note di Jovanotti vengono tagliati a fette
dal bisturi di un lucidissimo ragionamento politico.
“Se vince Bersani, non mi ricandido”.
Esultano i supporter del “nuovo che avanza”, mentre i cronisti della stampa
parlamentare affilano penne e tastiere per scrivere l’epitaffio del leader
morente: D’Alema rottamato, D’Alema scaricato, D’Alema superato. Sono le parole
che scandiscono il primo trionfo della new
age firmata Renzi, sono le parole che celebrano la morte di un Capo.
Già, è stato un Capo, il leader
Massimo: un capo discusso e discutibile, ma certamente un Capo. Un Capo in
grado di prendere per mano la sinistra tramortita dal primo albore del
berlusconismo nascente, di lanciare il progetto dell’Ulivo e di tracciare così
la road map della lunga marcia dei
progressisti verso il governo del Paese. Da quel momento in poi, la carriera
del Massimo è stata un susseguirsi di ombre e luci: la Bicamerale e
l’affrettata archiviazione del Governo Prodi; l’addio a Botteghe Oscure e
l’insediamento a Palazzo Chigi; l’eterno dualismo con Veltroni e la coraggiosa
denuncia delle violenze verificatesi a Genova nella “notte cilena” del 2001; i
successi ottenuti alla Farnesina e la poco convinta adesione al PD veltroniano;
l’appoggio incondizionato alla segreteria di Bersani e alla strategia volta
alla costruzione del “nuovo centro-sinistra”.
Ombre e luci, nella carriera del
Capo: terra di conquista per la ubris
di Matteo il Rottamatore, abile a rilanciare ossessivamente il refrain del ricambio generazionale per
coprire la mancanza di un progetto degno di tale nome. “Io porrò fine alla
carriera parlamentare di D’Alema”; “la generazione di D’Alema ha già dato, ora
basta”; “D’Alema è l’icona del fallimento di una classe dirigente, è ora di
mandarli a casa”. Il tono infuocato – adatto più a un piccolo caudillo che al
possibile candidato premier del centro-sinistra italiano – scalda gli animi di
un popolo assetato di rinnovamento: rottamazione, rottamazione, rottamazione.
Veltroni scappa in Africa, con una
valigia carica di bei libri e l’insopportabile fardello dei rimpianti conseguenti
alle sistematiche sconfitte riportate lontano dalla luce del Campidoglio. E
D’Alema? D’Alema no, D’Alema non cede. D’Alema ha vinto elezioni e stretto la
mano a Clinton; D’Alema ha trasformato il PDS nel primo partito del Paese,
prima di impantanarsi nelle sabbie mobili di quella maledetta Bicamerale.
D’Alema è un Capo, che non accetta di spegnersi in esilio: se cade, cade
combattendo. E allora: un rapido saluto allo scranno di Montecitorio, pieno
sostegno alla candidatura di Bersani, e un ruolo da padre nobile della sinistra
europea in caso di vittoria del segretario alle primarie.
“Se vince Bersani, non mi ricandido:
si può fare politica anche fuori dal Parlamento”. E se vince Renzi? Massimo
pesa di nuovo le parole con la bilancia di un sorriso diabolico: “Se vince
Renzi, continuo a combattere. Non sono un cane morto”. Tra le risate dei
cronisti della stampa parlamentare, ecco allora che un brivido freddo corre
lungo la schiena dei fans del Rottamatore: D’Alema è ancora in campo, la
giaculatoria del ricambio generazionale non lo ha ancora ucciso. E l’idea, in
caso di vittoria del Sindaco che cena con i banchieri e che esalta Marchionne,
di abbandonare il PD per dare vita a quel PSE italiano nel quale non ha mai
smesso di credere potrebbe rivelarsi ben più di una tentazione. Insomma, forse
è presto per gli epitaffi e per la celebrazione del trionfo della new age:
forse è presto per usare le parole che in genere fanno da contorno alla morte
di un Capo.
Carlo
Dore jr..
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