La fase discendente della parabola
del predone ha inizio in una strana serata di maggio del non lontano 2010,
quando due funzionari della Questura di Milano – in violazione delle procedure
vigenti – affidarono una minorenne marocchina fermata per furto nelle mani di
una procace “consigliera ministeriale”, adempiendo così all’ordine impartito
tramite una frenetica raffica di telefonate dal Presidente del Consiglio in
persona: “liberatela, è la nipote di Mubarak”.
Furono in pochi, allora, ad intuire
la complessità del sistema che si celava dietro quella assurda sequenza di
telefonate, dietro allo scomposto agitarsi di un premier dimostratosi ancora
una volta incapace di abbandonare la sua naturale dimensione di mattatore del
Drive In; furono in pochi a percepire quanto squallidamente pericolosa fosse la
realtà in cui Silvio Berlusconi sfogava le sue pulsioni egocratiche,
indifferente alle sorti di un Paese prossimo al default.
La
parabola del predone procedeva indisturbata tra gare di burlesque e allegre
schitarrate, maschere di Obama e buste piene di denaro, fanciulle da copertina
ed improbabili sbornie di Sanbitter: era il mondo del Bunga-Bunga, l’iperbole
di un leader che – a braccetto con Gheddafi, Putin e Ben Ali – si considerava
depositario di un potere senza limiti. Già, il potere: l’inchiostro con cui era
tracciata la parabola del predone, il fuoco della ubris berlusconiana, alimentato giorno dopo giorno dalla sfacciata
commistione tra funzione istituzionale e tutela di interessi privati.
Investito
del lauro dal consenso popolare, il predone impone e dispone, ad Arcore come a
Palazzo Chigi: ecco le Olgettine marciare tacchi al vento verso il Pirellone,
ecco Lavitola e Bisignani padroni assoluti della stanza dei bottoni, ecco fioccare
processi brevi e legittimi impedimenti. E se una delle protagoniste delle cene
eleganti finisce per caso in un commissariato di polizia, viene trasformata
nella nipote di Mubarak e rispedita di gran carriera nel suo mondo dorato, in
barba a magistrati, codici ed altri inutili orpelli da polverosi legulei.
L’abuso diviene prassi, la menzogna si trasforma in verità di Stato, ratificata
da un Parlamento umiliato nella sua alta funzione dalle determinazioni assunte
in seno ad un bivacco di manipoli. Il predone non conosce limiti: come
Gheddafi, come Putin, come Ben Ali.
Ma
la curva discendente è inarrestabile, la parabola volge al termine: la forza
della legge prevale sulla maniacale ricerca dell’impunità, e la condanna
pronunciata dal Tribunale di Milano nei confronti di Berlusconi travolge anche
quel sistema di piccole e grandi bugie, malcelate prevaricazioni e relazioni
opache che del circo del bunga-bunga costituivano il meccanismo dominante.
“E’
una sentenza politica”, guaiscono feriti gli oplites del Cavaliere; “è una
sentenza politica”, berciano disperate le Olgettine e le altre pasdaran
capitanate da Daniela Santanchè, evidentemente ignare del fatto che
l’accertamento della responsabilità penale cristallizzato in una sentenza può
costituire un semplice corollario di una ben più ampia responsabilità politica.
Nel momento in cui, dalle parole dei giudici, emerge la sconcertante debolezza
di un uomo di Stato inerme dinanzi ai molteplici desiderata delle starlette del
suo cerchio magico; nel momento in cui viene rilevata la palese incompatibilità
tra la sua condotta e quei parametri di disciplina ed onore che la Costituzione
gli impone di osservare nell’espletamento della sua funzione istituzionale,
ecco che il verdetto del Tribunale non si limita ad affermare la colpevolezza
del più eccellente tra gli imputati, ma rappresenta anche il tanto atteso
momento conclusivo di quella che è stata la lunga parabola del predone.
Carlo Dore jr.
(articolo pubblicato su cagliari.globalist.it)
Nessun commento:
Posta un commento