“Ahi che pessime orchestre, che brutta musica
che sento: qui si secca il fiore e il frutto del nostro tempo. Sono giorni
duri, sono giorni bugiardi: cara Democrazia, ritorna a casa, che non è tardi”.
Stefano
Di Traglia e Chiara Geloni ricorrono ad una delle più famose liriche di Ivano
Fossati per descrivere i duecento giorni che, dal 2 dicembre 2012 al 19 aprile
2013, vanno dalla vittoria di Bersani alle primarie per la premiership del
centro-sinistra alla rielezione di Napolitano ed alla formazione del governo-Letta.
Giorni bugiardi: di false promesse e di sogni spezzati, di vincitori condannati
alla sconfitta, di rottamati diventati rottamatori, di professionisti dell’eversione
reinventatisi paladini del civismo democratico. Comici e sindaci, dentisti e architetti,
giovani parlamentari ed eminenze ingrigite: tutti spettatori non paganti del
circo infernale scatenatosi nell’arena del Capranica, tutti registi
inconsapevoli del misfatto consumatosi nella notte dei 101, e cristallizzato nell’inequivocabile
titolo de Le Monde: “hanno abbattuto Prodi per colpire Bersani”.
Sì,
erano giorni bugiardi quelli in cui credevamo che, una volta confinate le
ambizioni del Rottamatore al di sotto del fatidico 40% dei consensi, “davvero
non ci avrebbe più ammazzato nessuno”; in cui non riuscivamo a comprendere come
la fatidica “agenda Monti” potesse in realtà costituire la pietra tombale sulle
speranze di vittoria di una sinistra che, declinando il sogno di un’Italia
giusta”, poteva quantomeno perseguire l’obiettivo di un’Italia migliore di
quella uscita dalle secche del ventennio berlusconiano. Non avevamo capito che quelli
erano giorni bugiardi: stretti tra il gelido rigore dei tecnici in loden e il
populismo sgangherato di Grillo, tra il delirio mediatico di Berlusconi ed i
soliloqui nostalgici di Ingroia, abbiamo visto svanire una vittoria che
sembrava già nostra, e la speranza del “cambiamento” ridursi ad un beffardo miraggio.
Già
il “cambiamento” era l’ossessione di Bersani, che, tra una tappa a Bettola e un
colloquio con i ricercatori del CERN, già predisponeva le bozze dei decreti da
sottoporre al primo Consiglio dei Ministri. Lavoro, diritti, legalità,
moralità: c’era la nostra Italia in quei provvedimenti in nuce, destinati ad essere seppelliti in un armadio di
Montecitorio; c’era la nostra Italia negli “otto punti” del Governo di cambiamento
proposti alle Camere per sbloccare l’impasse istituzionale determinatosi all’indomani
del voto del 25 febbraio. Nulla da fare: quelli erano giorni bugiardi, abbiamo
detto dei “no” e ci siamo sentiti dire di “no”.
Quelli
erano giorni bugiardi. Berlusconi e Alfano sapevano di aver perso le elezioni,
e inseguivano le larghe intese con la benedizione di rottamati e rottamatori:
alle larghe intese credevano i tanti montiani del PD, rimasti folgorati sulla
via della Große Koalition; alle
larghe intese credeva Renzi, che indicava l’accordo con il PDL come l’unica
alternativa al ritorno alle urne. Berlusconi e Alfano sapevano di aver perso le
elezioni, e proponevano un baratto scellerato tra Palazzo Chigi e il Colle.
Berlusconi e Alfano sapevano di aver perso le elezioni, ma Bersani non voleva
cedere: “la nostra gente non capirebbe le larghe intese” “Se sperano di
convincermi ad eleggere un Presidente della Repubblica che garantisce la grazia
a Berlusconi, se lo possono scordare”.
No,
no. Due “no” che servono a spiegare l’evoluzione di quei giorni bugiardi.
Servono certamente a spiegare la fuga di Grillo dalla responsabilità del
governo di cambiamento, dall’intermediazione di Renzo Piano e dai contatti
instaurati dal dentista pontiere: protestare è più semplice che governare, e le
larghe intese costituivano lo scenario perfetto per rinnovare la parodia
mediatica dell’assalto ai palazzi del potere. Servono probabilmente a spiegare
il niet opposto dalla carica dei 101 innominati all’ascesa al Quirinale di
Romano Prodi, prima acclamato e poi vilmente fulminato dal fuoco incrociato di
rottamatori e rottamati, ritrovatisi fianco a fianco nelle tenebre della notte
del Capranica. Hanno voluto colpire Prodi per colpire Bersani; l’ex segretario
risponde con la forza di una battuta: “quelli avrebbero segato anche Papa
Francesco”.
Il
resto è mera cronaca: le dimissioni di Bersani segnano l’addio all’Italia
giusta e al governo di cambiamento; le larghe intese nascono e muoiono nel giro
di un’estate, seppellite dalla condanna del Cavaliere decadente e dalle mille
polemiche per pasticci kazaki e ministri dal telefono bollente. Eppure, la
lettura del libro di Di Traglia e Geloni riesce ad insinuare un dubbio nei
militanti dell’area democratica, impegnati nell’ennesima battaglia
congressuale: i giorni bugiardi potrebbero non essere finiti, rottamatori e rottamati
sono ancora insieme sotto le insegne dell’Italia che cambia verso: a promettere
giorni nuovi a quel che resta della sinistra all’alba della terza Repubblica.
No, i giorni bugiardi non sono ancora finiti, e quelli che ci aspettano
potrebbero non essere giorni migliori.
Carlo Dore jr.
Cagliari.globalist.it
Nessun commento:
Posta un commento