Interruzione di ogni mediazione
interna, superamento del dogma delle primarie per la selezione delle
candidature locali, irrigidimento delle strutture territoriali: i risultati
delle ultime amministrative – contrassegnate da un astensionismo dilagante e
dalla dilapidazione di un capitale politico di quasi sette milioni di voti –
risuonano dalle parti del Nazareno come la classica campana a morto che segna
la fine di un’epoca: quella del “partito scalabile” grazie al sentiero delle
primarie aperte, quella dell’esaltazione dei “politici d’occasione” che
impongono la forza della leadership empatica sulla debolezza dei partiti
destrutturati.
Quella del “politico d’occasione”,
secondo Michele Prospero, è una categoria che cattura da sempre le riflessioni
degli studiosi dell’arte del potere: Machiavelli identificava il tratto
principale del “politico d’occasione”nella capacità di cogliere l’attimo
concesso dalle circostanze, per appropriarsi dello scettro del comando; Max
Weber nel “dilettantismo politico”, nella concezione della politica come “occasione
per la realizzazione di rendite o profitti” e nella sostanziale indifferenza
per le dinamiche che della politica governano lo svolgimento.
Tra Machiavelli e Weber, Renzi non
mai rinnegato la propria natura di “politico d’occasione”, accentuando a tal
punto le caratteristiche di tale figura da rimanerne, alla lunga, prigioniero. Dismessi
i panni del disciplinato scolaro dei maggiorenti del centro-sinistra
fiorentino, ha sfruttato le divisioni in seno all’area democratica per
accreditarsi come il candidato civico in lotta con la casta dei partiti nella
conquista di Palazzo Vecchio. Le primarie aperte alla benedizione di parte
della destra gigliata ne hanno fatalmente premiato il disegno, la legge
elettorale dei sindaci – che ribalta, grazie al lavacro lustrale dell’elezione
diretta, il rapporto fiduciario tra primo cittadino e consiglio comunale – ne ha
rilanciato l’immagine di leader impolitico che governa solo grazie al favor populi. De-strutturazione dei
partiti e cultura plebiscitaria della leadership, giovanilismo e camice
bianche, hastag e parole in libertà: ecco il patto fondativo della Leopolda,
ecco l’alba della rottamazione, della brutale guerra preventiva mossa in
confronto di un gruppo di persone, prima ancora che di un progetto politico.
Il paladino della democrazia
partecipata chiede e ottiene una modifica dello statuto: di nuovo le primarie,
di nuovo aperte, ma stavolta perse miseramente, per lo sgomento di salotti
buoni e mondo dell’imprenditoria. Il “politico d’occasione” non si ferma, ed attende una nuova
opportunità: gliela forniscono i 101, che pugnalano alle spalle Prodi per neutralizzare
il “governo di cambiamento” teorizzato da Bersani; gliela fornisce un gruppo
dirigente disposto ad auto rottamarsi in nome del primum vivere, per poi ritrovarsi sotto le insegne del nuovo idolo.
Le primarie per la segreteria, Letta dimissionato dalla forza di un tweet, il
Patto del Nazareno prima benedetto e poi abiurato, la minoranza interna
ridicolizzata a colpi di “Fassina chi?”: le occasioni del “politico d’occasione”
si susseguono, fino a Palazzo Chigi, fino alla bulimica notte del 41%, che
annebbia la capacità di analisi e scatena mai sopite pulsioni egocratiche.
Machiavelli lascia spazio a Weber, il
politico d’occasione si conferma un politico dilettante. Dalle riforme
istituzionali al mercato del lavoro, dalla legge elettorale alla riforma della
scuola, ferisce il suo elettorato con un’impostazione di governo volutamente
iper-conservatrice, debitamente edulcorata dal mantra del rinnovamento. Flirta
con gli industriali e combatte con il sindacato; rinuncia a costruire un ampio
campo di forze a sostegno della sua leadership per porre la sua figura al
centro di un conflitto politico permanente: o con me o contro di me, o per il
rinnovamento o per la conservazione. Alla lunga, si tratta di un’occasione
sprecata: gli elettori disertano le urne, i voti sono spariti, la notte del 41%
diventa solo una storia da narrare.
Le campane del Nazareno iniziano a
suonare a lutto, il “politico l’occasione” scorre le pagine di Machiavelli e
tenta di porre un riparo. Contrordine, compagni: basta con il dissenso interno,
comunque silenziabile attraverso il ricorso ossessivo al voto di fiducia; basta
con le primarie ad ogni costo, specie se determinano candidature non approvate
dalla segreteria nazionale; basta con il partito leggero, se un rafforzamento
delle articolazioni locali garantisce un più immediato controllo dei territori.
Dalle “primarie ad ogni costo” al ritorno del centralismo democratico; dal “partito
scalabile” al “partito caserma”: il politico d’occasione è pronto a rinnegare
sé stesso, pur di recuperare il terreno perduto.
Ma le campane del Nazareno continuano
a suonare a lutto: ormai è tardi, e il politico d’occasione non può liberarsi
dal dogma su cui ha costruito la sua figura. Ormai è tardi, per recuperare i
consensi di un elettorato sfinito dal vuoto di rappresentanza e paralizzato
dall’attesa di un alternativa che ancora non
si manifesta. Ormai è tardi, per procrastinare l’incombente fine di una
stagione: quella dei partiti scalabili, e dell’esaltazione dei “politici d’occasione”.
Carlo
Dore jr.
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