“Che
brutta fine ha fatto Silvio Berlusconi” osservano immalinconiti i commentatori
di tutto il mondo, assistendo alla inarrestabile disgregazione di Forza Italia
e alla disarmante diaspora di parlamentari azzurri verso l’orizzonte del
Partito della Nazione. Già, che brutta fine ha fatto il Cavaliere: impegnato a
respingere l’OPA ostile lanciata da Salvini su quel che resta del
centro-destra, sbeffeggiato nelle aule giudiziarie dalle starlette delle notti
di Arcore, abbandonato perfino dal luogotenente Verdini e dal citareda Bondi,
partecipa da attore non protagonista alla new
age della politica italiana, assecondando passivamente la transizione dal
bipolarismo muscolare che ha caratterizzato il suo ventennio al sostanziale
dominio del partito trasversale berevettato da Renzi. Si chiude un’epoca, ne
comincia un'altra: da capo commedia a figurante, che brutta fine ha fatto
Berlusconi.
Eppure,
l’abbraccio tra Lotti e Verdini, la strombazzata adesione di Manuela Repetti al
percorso riformatore in atto, perfino la conversione di Renata Polverini sulla
via di Rignano bastano a far germinare il seme di un dubbio, volutamente
snobbato da renziani della prima e della seconda ora: e se l’apogeo della
Leopolda fosse, in verità, la sublimazione del berlusconismo nella sua più
intima essenza? E se il Patto del Nazareno, utilizzato da Renzi come trampolino
per intraprendere la sua personalissima scalata al piano nobile di Palazzo
Chigi, avesse conservato intatto il suo vigore? E se Berlusconi, dietro il
cadente mascherone del monarca morente, continuasse a celare il ghigno beffardo
dell’eterno vincitore?
Cullato
dalle amazzoni del Cerchio Magico, il Cavaliere vede allontanarsi lo spettro di
processi ed eterni oppositori: la minaccia del Ruby-gate è stata disinnescata a
seguito di una sentenza destinata ad impegnare (per la particolare lettura del
reato di concussione per induzione in essa proposta) le riflessioni degli
studiosi per gli anni a venire; il mito della rottamazione – lungi dal
risolversi in un epocale ricambio generazionale – ha semplicemente condannato
all’eterna minorità quei pochi esponenti dell’area democratica dichiaratisi
indisponibili a barattare la loro coerenza personale con uno strapuntino sul
carro del vincitore, lanciato in piena corsa sulla via delle larghe intese; la
retorica del “o con noi, o rosicone” ha silenziato una volta per sempre quella
fetta di società civile la cui mobilitazione a presidio dei valori repubblicani
aveva impedito la metamorfosi delle istituzioni democratiche in apparati
asserviti ai capricci del sultano di Cologno Monzese.
Il
sindacato non esiste più, il jobs act realizza quel sistema di
flessibilizzazione del mercato del lavoro (consistente in gran parte nell’abrogazione
dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori) pervicacemente perseguito da Maroni
e Sacconi, il combinato disposto Italicum – ddl Boschi delinea, nell’indifferenza
generale, un sistema istituzionale non dissimile da quello tratteggiato dai
saggi di Lorenzago, il tema del conflitto di interessi viene considerato pressoché
irrilevante nell’ambito del dibattito politico attuale. C’è tanta conservazione
nella rivoluzione, la rottamazione presenta un fortissimo retrogusto di
restaurazione: il sistema – Paese imposto da Renzi non è lontano da quello
promesso da Berlusconi agli adepti del nuovo miracolo italiano.
Gli
alfieri del nuovo corso sorridono e scuotono la testa: ma quale conservazione?
Ma quale restaurazione? La contrapposizione destra-sinistra non ha più ragion d’essere,
le riforme servono all’Italia a prescindere dalla connotazione ideologica che
le ispira: la nuova frontiera è il Partito della Nazione, perno di un sistema
basato sulla ubris del capo
carismatico, e appena vivacizzato dalle ruspe di Salvini e dagli urlacci di
Grillo.
Eppure,
il seme di quel maledetto dubbio continua a germinare, gettando una macchia di
unto sul candore dei sorrisi che accompagnano l’attuazione della svolta buona:
il dubbio che la brutta fine a cui Berlusconi sta andando incontro consista, in
verità, nella piena realizzazione degli obiettivi personali ed economici
perseguiti dall’anziano leader nel breve periodo, nel totale completamento di
un progetto politico cullato nell’arco di un ventennio; il dubbio che la decomposta
maschera del monarca morente sia utile a celare l’ennesima esibizione del
beffardo ghigno del vincitore.
Carlo
Dore jr.
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