Un Senato composto da non eletti (e dunque, non qualificabile come
diretta espressione della sovranità popolare) che concorre all’approvazione di
leggi fondamentali per l’organizzazione dello Stato; un Senato composto da
consiglieri regionali e sindaci condannato alla quasi certa irrilevanza dal
sistema di termini che caratterizza il procedimento legislativo; un Governo che
individua nel procedimento a data certa un ulteriore strumento per ergersi ad
arbitro dell’attività del Parlamento; la competenza esclusiva delle Regioni
esposta alla “clausola vampiro” prevista dal nuovo testo dell’art. 117, comma
4.
Molteplici sono i profili di
criticità che la riforma costituzionale oggetto del referendum del prossimo 4
dicembre propone all’attenzione dell’opinione pubblica, molteplici sono le
ragioni del crescente dissenso di una parte sempre più ampia dell’area
democratica verso una riforma lontana dallo “spirito costituente” dal quale l’attuale
Carta Fondamentale risulta permeata. Una parte sempre più ampia dell’area
democratica che non dismette l’idea di Costituzione intesa come compromesso
alto tra forze politiche unite da un substrato di valori comuni; che non
asseconda il un progetto di Costituzione esclusivamente riconducibile alla
volontà della maggioranza politica contingente, figlio illegittimo del
tentativo di dividere il Paese in innovatori e conservatori, lealisti e
traditori, partigiani veri e finti. Una parte dell’area democratica che non
cede, in definitiva, alla tentazione di ridurre la Carta fondamentale a instrumentum regni, a “scettro del
principe”che moltiplica potere e consensi di una leadership carismatica.
Questo dissenso montante è stato
(forse tardivamente) intercettato dalla minoranza del Partito democratico, nel
momento in si è opposta al combinato disposto tra ddl Renzi – Boschi e
Italicum, considerando per forza di cose irricevibili le generiche promesse di
revisione di una legge elettorale imposta dal Governo a colpi di fiducia, al
termine di un percorso parlamentare scandito dalla rimozione dei “dissidenti”
in seno alla commissione affari costituzionali e dalle dimissioni dell’on.
Speranza dalla sua carica di capogruppo del PD alla Camera dei deputati.
Il resto è grigia cronaca: la
riforma costituzionale ritorna l’ultima frontiera di un Esecutivo asfittico. Lo
scettro del Principe diventa la clava del tribuno: agitata dal Presidente del
Consiglio al centro di una piazza semivuota, per lo sconcerto di quanti
percepiscono il paradosso di un Governo schierato a sostegno della “sua”
Costituzione; abbattuta con violenza – al grido “Fuori! Fuori!” – sulle ragioni
dei dissidenti, brutalmente liquidate come l’estremo tentativo di salvaguardare
privilegi e rendite di posizione per i sepolcri imbiancati della conservazione.
Ma il dissenso alla riforma
costituzionale in atto non si traduce nell’aprioristica difesa dello status quo, né rappresenta una totale
chiusura verso possibili circoscritti aggiornamenti della Carta fondamentale
utili, nella prospettiva della “buona manutenzione costituzionale” a cui più
volte fa riferimento Stefano Rodotà nel suo ultimo libro, a rendere più
razionale ed efficiente il sistema democratico. No, le ragioni di questo dissenso vanno ricercate altrove:
nelle tante zone d’ombra che contraddistinguono il testo ddl Renzi – Boschi;
nei mille profili di irrazionalità che scandiscono il passaggio dal
“bicameralismo perfetto” al “bicameralismo confusionario”; e soprattutto nella
necessità di salvaguardare l’integrità del “compromesso alto” nel quale la
Carta fondamentale si identifica, senza cedere alla retorica di quanti
degradano la Costituzione a scettro del principe, o a clava del tribuno.
Carlo
Dore jr.
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