La mia introduzione all'iniziativa svoltasi ieri a Cagliari, con Chiara Geloni, Alfredo D'Attorre e Luisa Sassu.
L’operazione
diretta a ripercorrere i passaggi fondamentali dell’iter che ha condotto
all’approvazione del ddl Renzi –Boschi non può esaurirsi nella ricostruzione
delle varie fasi del procedimento formativo di una legge che pure è destinata a
condizionare in modo decisivo gli equilibri democratici del Paese nel prossimo
futuro.
No,
la sostituzione, in seno alla commissione affari costituzionali, dei
parlamentari del PD critici verso la linea del Governo, la continua minaccia
del ricorso al voto di fiducia, il pervicace tentativo di liquidare ogni voce
critica come espressione dei sepolcri imbiancati della conservazione fine a sé
stessa, la generale tendenza a risolvere il confronto sul tema delle riforme
istituzionali in uno scontro frontale tra paladini del rinnovamento e cultori
del disfattismo meritano di essere esaminati anche sotto un altro profilo:
quello – più squisitamente politico – del disagio che pervade una fetta dell’area
democratica allo zenit della stagione del cambia-verso. Un disagio
quotidianamente alimentato dalla forza ineludibile di un semplice
interrogativo: siamo di fronte a un progetto di riforma compatibile con lo
spirito della buona manutenzione costituzionale che ispira l’art. 138, o ad un
brutale tentativo di rottamazione della Carta?
Proprio
il concetto di rottamazione costituisce la fonte di questo disagio, il filo
rosso che tiene unite le ragioni di quella fetta di sinistra che proprio non
vuole abbandonarsi alla mistica dell’Uomo forte: le pulsioni innovatrici degli
oplites della Leopolda si sono infatti ben presto convertite in una strategia
di leadership finalizzata non a favorire un fisiologico ricambio a livello di
classe dirigente – supportato dal democratico confronto tra differenti visioni
di politica generale -, ma a determinare la sostanziale neutralizzazione di
alcuni dirigenti ben individuati, neutralizzazione messa a punto tra un pranzo
ad Arcore e un mail bombing, tra un tweet al vetriolo e il fuoco amico esploso
nella notte dei 101. Una strategia di leadership imperniata sulla presenza di
un nemico da abbattere, che il patto del Nazareno ha trasformato in un
programma di governo elaborato in danno di chi, per non vincolarsi ai termini
di quell’accordo inconcepibile, aveva perfino rinunciato alla poltrona di
Palazzo Chigi.
Ma
quella strategia non vive di respiro proprio, priva com’è del retroterra culturale e dei legami
con il tessuto sociale necessari ai progetti politici per poter declinare un’idea
di futuro: ha bisogno di un nemico per auto-legittimarsi, per rinnovare
l’esistenza di quello scontro generazionale di cui la generazione – Telemaco
(comprimario dell’Odissea inopinatamente elevato a icona della new age
italiana) costituisce l’ipertrofica proiezione.
Ecco,
l’impressione è che la materia delle riforme rappresenti l’occasione per
individuare questo nuovo nemico da abbattere, il terreno d’elezione per
riaffermare la leadership degli innovatori: sono nemici da abbattere i membri
della commissione affari costituzionali che non si piegano ai desiderata del
Governo; sono nemici da abbattere gli accademici che denunciano le
contraddizioni e i limiti del bicameralismo sciancato conseguente
all’elaborazione del “nuovo Senato”; sono nemici da abbattere gli stessi
senatori, costretti a votare in diretta per la loro autodistruzione.
E
il disagio di quella parte dell’area democratica che non crede nella stagione
del cambia-verso, di quella fetta di sinistra che non cede alla retorica dell’Uomo
forte si converte in un dissenso più percepibile: perché un Paese ancora
attanagliato da una crisi profonda non può rinunciare al sistema di equilibri
che ha permesso alla nostra democrazia di superare indenne il ventennio
berlusconiano per ridare linfa a una leadership asfittica; perché una
rottamazione della Carta rappresenterebbe, nei fatti, un sacrificio
insostenibile: per la povera sinistra, e per la povera Italia.
Carlo Dore jr.
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