L’esito
del referendum costituzionale avrebbe paradossalmente potuto costituire una
colossale occasione per il PD e per il suo attuale gruppo dirigente: l’occasione
per riattivare quella “connessione sentimentale” con la sua base sociale di
riferimento, esauritasi lungo la road to
perdition che doveva condurre al Partito della nazione; l’occasione per
restituire al partito la sua naturale dimensione di comunità politica, anch’essa
sacrificata sull’altare della leadership carismatica; l’occasione per avviare,
in definitiva, una riflessione critica in ordine ai principali avvenimenti che
hanno scandito l’evolversi della legislatura in corso, dalla “Notte dei 101” al
tentativo (velleitario e pericoloso) di rottamazione della Carta. Una
riflessione che, proprio alla luce del voto referendario, avrebbe dovuto
vertere tanto sulle responsabilità politiche di Matteo Renzi, quanto sulle
responsabilità istituzionali di Giorgio Napolitano.
Il naufragio del percorso
riformatore benedetto dal Presidente emerito all’atto del suo re-insediamento imporrebbe
infatti di valutare se lo stesso ex Capo dello Stato abbia sempre suonato a
tempo la “fisarmonica” dei poteri riconnessi alla sua carica: se la scelta di
differire il dibattito sulla fiducia all’ultimo governo Berlusconi (scelta che
di fatto regalò al Cavaliere un altro anno di regno, assicuratogli dal supporto
delle truppe scilipotiche), la decisione di non permettere a Bersani di
sottoporre alle Camere la sua sfida del Governo di cambiamento, la
determinazione di mettere sotto schiaffo il Parlamento condizionando la sua
permanenza al Quirinale all’attuazione di una penetrante revisione della Carta
possano considerarsi coerenti con il ruolo di supremo garante dell’equilibrio
costituzionale a lui assegnato nell’organizzazione orchestrale dello Stato.
Secondo questa linea di pensiero, nello
spartito composto da Napolitano Renzi ha recitato il ruolo della prima donna:
la scalata alla segreteria del PD è stato solo il primo passo della marcia di
avvicinamento verso Palazzo Chigi, colpevolmente assecondata da un gruppo dirigente
dimostratosi (con qualche lodevole eccezione, rinvenibile nelle sempre più
esigue fila della minoranza bersaniana) tanto disponibile ad assecondare l’ascesa
del nuovo corso quanto insensibile alle questioni di principio che avrebbero
potuto arginare lo strapotere del princeps.
La ubris collettiva figlia del voto europeo ha portato i protagonisti
della “svolta buona” a ignorare le conseguenze prodotte dalle scelte del
Governo: il jobs act e il legame con
la grande industria sfibravano il legame con il mondo del lavoro e del
sindacato; le slides che declinavano
le magnifiche sorti de “La buona scuola” facevano crescere il dissenso degli
insegnanti; l’indifferenza ostentata verso i problemi dell’Università recideva
il legame con il mondo della cultura. Quasi senza accorgersene, il Segretario
del PD e la sua maggioranza silenziosa si sono trovati da soli ad affrontare l’appuntamento
referendario (inopinatamente trasformato in un giudizio ordalico sulla figura
dell’ex premier): soli, nel fracasso di mille slogan senza cuore e senza
significato; soli, perché lontani anni luce dalle istanze e dalle
rivendicazioni di quegli strati sociali che avevano sempre trovato nel
centro-sinistra il loro ideale punto di riferimento.
Il “referendum straperso” avrebbe
dovuto indurre il Segretario del PD e la sua maggioranza consenziente a
procedere in questo sforzo di riflessione: ad ammettere limiti, errori e colpe;
a recuperare il dialogo con il proprio mondo declinando una nuova idea di
politica, e demandandone l’attuazione a una classe dirigente più matura e
consapevole di quella generata dal germe della rottamazione. Ma le parole affidate
da Renzi alle pagine de “La Repubblica” trasudano ancora ubris e fracasso, e i componenti della maggioranza consenziente
continuano a ostentare sorrisi e solgan senza cuore: il referendum è alle
spalle, avanti in nome del cambiamento, con l’obiettivo di sconfiggere i
populismi. Della riflessione non c’è traccia, non c’è spazio per la
riflessione.
Eppure, il risultato del referendum
costituzionale suggerisce proprio che le logiche di cui si alimentano i
movimenti populisti vengono esaltate dal confronto all’ultimo sangue nel quale
la politica muscolare tende a risolversi; e che, correlativamente, la sconfitta
dei populismi passa proprio da quella
connessione sentimentale tra partito e popolo di cui il PD ha smarrito la
traccia, dalla capacità di aggregare elettori ed eletti attorno a un progetto
collettivo ispirato ad una forte “idea di politica”, in grado di irradiare tutte
le singole “idee politiche” che in quel progetto vengono a collocarsi. Un’idea
di politica che proprio gli strati sociali tradizionalmente collegati al
centro-sinistra hanno individuato nei principi della Costituzione, vanificando
i progetti di quanti ne invocavano il superamento.
Ecco perché dal risultato del
referendum si sarebbe potuto ripartire per ripristinare un punto di contatto
tra il PD e quei settori dell’area democratica che, al momento, si trovano
privi di rappresentanza; ecco perché la scelta del Segretario del PD di non
procedere nello sforzo di riflessione suggerito dal voto referendario sembra
destinato a risolversi nell’ennesima occasione mancata.
Carlo
Dore jr.
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