Fiumi
di parole hanno inondato giornali e televisioni, per descrivere le conseguenze
della “scissione” posta in atto dalla minoranza del PD alla vigilia di un
congresso destinato a trasformarsi nell’ennesimo lavacro lustrale della
leadership di Matteo Renzi, che ancora sconta le ammaccature della sconfitta
referendaria. Fiumi di parole, destinate ora a tradursi in generici appelli all’unità
contro i populismi, ora a risolversi in asfittici richiami al senso di
responsabilità di chi non è più disposto ad assecondare le logiche del partito
personale, ora a innervarsi della retorica (greve e vagamente cialtrona) che involge
i reiterati riferimenti a vendette e strategie di potere. Fiumi di parole,
volti ad edulcorare – colpevolmente o artatamente – la realtà prodotta dai
quattro anni di ortodossa diffusione del Vangelo secondo Matteo, sfumando i
limiti, le contraddizioni e le deformità di una stagione politicamente e
democraticamente fallimentare.
Individuando
nella segreteria del partito il trampolino utile per completare la scalata a
Palazzo Chigi, Renzi ha declinato una strategia di governo tutta impostata su due
fondamentali direttrici: il rafforzamento della propria immagine di capo
carismatico – rafforzamento colpevolmente assecondato da una classe dirigente
rivelatasi disponibile a barattare un patrimonio di storie e di esperienze
personali di tutto rispetto con uno strapuntino sul carro del vincitore -; la
costante ricerca di un nemico da abbattere, individuata quale efficace
strumento di moltiplicazione del consenso. La prima direttrice ispirava il combinato
disposto legge elettorale- riforma costituzionale, pietra angolare di un
modello di democrazia “decidente” o “a bassa intensità”; la seconda orientava
tanto la costante frustrazione delle istanze proposte da quelle categorie
sociali che la sinistra si era da sempre impegnata a rappresentare, quanto gli
attacchi agli esponenti della stessa area democratica che si ostinavano a segnalare
all’ex segretario le insidie di cui era disseminata la sua personalissima road to perdition.
Il
voto del 4 dicembre e la sentenza della Consulta che ha rilevato l’illegittimità
costituzionale dell’Italicum ha così sancito il fallimento di questa idea di
democrazia, ed ha correlativamente certificato la definitiva frattura
intercorsa tra il PD e una fetta sempre più ampia di popolo della sinistra,
abbandonato sulla via del Partito della Nazione e disposto ad andare incontro a
una crisi di rappresentanza piuttosto che accettare la rottamazione del proprio
substrato culturale di idee e valori.
Una
simile crisi di rappresentatività e consensi richiedeva tre passaggi essenziali:
una riflessione approfondita sulla genesi della stessa, sulle ragioni della
sconfitta referendaria, sui limiti connaturati a una proposta politica che
obliterava i progetti di ampio respiro in favore della forza deflagrante di un
tweet; l’elaborazione di un programma inclusivo, che trovasse nell’attuazione
dei valori costituzionali dell’uguaglianza, della solidarietà e del diritto al
lavoro i propri obiettivi immediati; infine, il superamento di una classe
dirigente e di una leadership rivelatesi, alla prova dei fatti, non all’altezza
delle sfide che questa complicata fase storica propone.
Il
prossimo congresso del PD persegue invece una strada diversa: nessuna analisi
del referendum, nessuna critica a quel modello di democrazia a bassa intensità.
Si va avanti con la classe dirigente plasmata dalla retorica della
rottamazione, si va avanti con Matteo Renzi, che cerca nel passaggio dai gazebo
una rinnovata legittimazione in grado di metterlo al riparo dalle conseguenze
di un’altra probabile sconfitta in occasione delle amministrative di primavera.
E’ troppo, per quel popolo della sinistra in crisi di rappresentanza; è troppo,
anche per quegli esponenti dell’area democratica che hanno cercato di frenare
la folle corsa verso il vuoto imposta dall’ex premier al partito, al Governo e
al Paese.
Non
valgono allora i generici appelli al senso di responsabilità, rivolti a chi,
per amore della ditta, ha troppe volte assecondato scelte altrimenti insostenibili;
non valgono gli altrettanto generici richiami al possibile incedere dei
populismi, se declinati dai fautori di un paradossale (e a tratti sconfortante)
populismo di governo; non valgono i riferimenti alle vendette di D’Alema o alle
logiche conservative che governerebbero le scelte di Bersani, ultimo esemplare
di politico capace di rinunciare alla poltrona di Palazzo Chigi pur di non
stringere accordi contro natura con gli esponenti della peggiore destra
berlusconiana.
La
scissione posta in atto dalla minoranza del PD nasce, semplicemente, da una
necessità e da un’occasione: dalla necessità di riaffermare la forza di un
progetto di ampio respiro sull’incidenza degli slogan a centocinquanta
caratteri, di contrapporre un’idea di collettivo alla logica del partito
personale. E dall’occasione di restituire un riferimento a quella fetta di
popolo della sinistra che i teorici della Svolta buona hanno ritenuto non
meritevole di rappresentanza. Una necessità che non può essere elusa, un’occasione
che non può essere persa: per la povera Sinistra, e per la povera Italia.
Carlo
Dore jr.
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