Le polemiche che hanno
investito il ruolo del Presidente della Repubblica nella crisi istituzionale in
atto costituiscono lo spunto per alcune considerazioni di carattere generale,
presupposto necessario per offrire una valutazione equilibrata dell’esercizio,
da parte del Capo dello Stato, del potere attribuitogli dall’art. 92 Cost. Valutazione
che assume differenti connotati se condotta sul piano strettamente giuridico –
formale, ovvero se proiettata su quello latamente sostanziale della critica
politica.
Muovendo dalla
considerazione, inopinatamente rilanciata da alcuni organi di stampa, in forza
della quale il Capo dello Stato si sarebbe “opposto alla sovranità popolare”,
impedendo la formazione del governo “votato dagli elettori”, non si può non segnalare
come, anche a causa di una legge elettorale caratterizzata da molteplici dubbi
di legittimità costituzionale, le elezioni del 4 marzo non abbiano determinato
un vincitore, generando un Parlamento di fatto parcellizzato in tre minoranze,
e dunque non in grado di esprimere (a differenza di quanto accaduto, ad
esempio, nel 2006 e nel 2008) una maggioranza riconducibile ad uno schieramento
politico ben definito.
I due partiti che hanno
ottenuto il maggior numero di consensi (pur presentandosi in aperta contrapposizione
tra loro al giudizio delle urne) hanno faticosamente avviato un dialogo
orientato alla costruzione di un accordo politico - programmatico,
cristallizzato nel “contratto per il governo di cambiamento”. Proprio il
riferimento al “contratto” propone a sua volta due spunti di riflessione: da un
lato, esso infatti evoca un vincolo giuridico logicamente incompatibile con un
accordo di governo, basato esclusivamente su una comune visione di Paese
ispirata all’attuazione dell’interesse generale. D’altro lato, individuandosi
nel contratto lo strumento giuridico privilegiato di esercizio dell’autonomia
privata, da tale riferimento traspare una concezione appunto “privata” e
“proprietaria” delle istituzioni, una sorta di equazione (più volte applicata
imperante Berlusconi) tra il consenso elettorale e l’insensibilità alle regole
che governano la dialettica tra poteri dello Stato. Una logica proprietaria che
ha indotto un partito di minoranza (rappresentativo del 17% dei voti espressi
in occasione dell’ultima competizione elettorale) a imporre la nomina di un
ministro al Capo dello Stato; una logica proprietaria alla quale il Presidente
della Repubblica, nell’esercizio del suo ruolo di supremo garante degli
equilibri costituzionali, aveva non solo il diritto, ma financo il dovere di
opporsi.
Queste considerazioni
costituiscono, si diceva, il presupposto necessario per interpretare
correttamente l’art. 92 Cost., nella parte in cui esso assegna al Presidente
della Repubblica il potere di nominare il Presidente del Consiglio dei
Ministri, e, su proposta di questi, i singoli Ministri. Nell’ermeneusi di tale
norma, gli studiosi sono divisi tra quanti considerano la proposta del
Presidente del Consiglio vincolante per il Capo dello Stato (riducendo di fatto
la nomina dei membri del governo ad un atto solo formalmente presidenziale), e
quanti viceversa descrivono la nomina dei Ministri alla stregua di un atto
“complesso”, e dunque prodotto dalla concertazione tra Presidente della
Repubblica e Presidente del Consiglio.
La prassi istituzionale ha
favorito questa seconda lettura, assegnando alle determinazioni del Capo dello
Stato un’incidenza talvolta molto netta in ordine alla formazione
dell’Esecutivo: lettura peraltro supportata anche dal rilievo in forza del
quale i vari progetti di riforma della Carta Fondamentale precedenti quello
oggetto del referendum costituzionale del 2016 contemplavano proprio
l’attribuzione al Presidente del Consiglio del potere di nomina dei singoli
ministri, attribuzione che gli risulta dunque preclusa nell’assetto
istituzionale vigente.
In questa prospettiva, la
scelta del Presidente di non accogliere la proposta di nomina di un Ministro
deve considerarsi pacificamente riconducibile ai poteri ad esso assegnati dalla
Carta Fondamentale: non sfugge inoltre ad un’analisi obiettiva dei fatti che il
mancato insediamento dell’Esecutivo presieduto dal Prof. Conte non è dipeso dal
rifiuto del Capo dello Stato di procedere alla nomina del Governo, ma dal
rifiuto di un partito di maggioranza, riconducibile alla logica proprietaria di
cui sopra, di accogliere le indicazioni del Capo dello Stato rimanendo ferma
nella propria imposizione.
Il discorso si sposta
sulle ragioni individuate a sostegno della scelta del Presidente, apparse più
ispirate a esigenze di politica generale che a motivazioni di stretto diritto.
Nell’esercizio del suo potere di nomina dei ministri, il Capo dello Stato deve
infatti trovare la sua stella polare nei principi della Costituzione: e in
questo senso, più del generico richiamo alla tutela del risparmio ed alla necessità
di rassicurare gli operatori economici internazionali, maggiore incidenza
avrebbe assunto il riferimento agli artt. 11 e 47 della Carta, oltre che al
principio di leale collaborazione tra i poteri dello Stato a cui si ispirano
numerose pronunce della Corte Costituzionale.
Posto infatti che l’art.
11 valorizza le limitazioni di sovranità necessarie alla costruzione di un
ordinamento che assicura la pace e la giustizia fra le Nazioni, e che i
trattati istitutivi dell’Unione Europea e dell’Euro trovano proprio nella
disposizione da ultimo richiamata il loro fondamento costituzionale, le
posizioni di un tecnico che mettono in discussione tali limitazioni di
sovranità potrebbero collocarsi al di fuori del perimetro costituzionale,
giustificando così la sua mancata nomina a un dicastero centrale nella
costruzione dell’Esecutivo. Del pari, tutelando l’art. 47 Cost. il risparmio in
ogni sua forma, al di fuori del perimetro costituzionale si porrebbe un
ministro promotore di una politica economica potenzialmente contrastante con
tale esigenza riconosciuta dalla Carta Fondamentale. Infine, se il Presidente
della Repubblica, nella presente congiuntura politica, ha offerto alle forze
presenti in Parlamento il più ampio margine possibile nella ricerca di
un’intesa volta alla formazione di una maggioranza di governo, le imposizioni a
cui ho precedentemente fatto cenno risultano antitetiche rispetto a quel
principio di leale collaborazione che, nella prospettazione della Consulta, deve
costantemente ispirare i rapporti tra poteri dello Stato.
Rivolgendo ora la
valutazione dal piano giuridico – formale a quello più marcatamente politico, i
rilievi appena proposti sembrano però vertere non tanto sulla posizione di un
singolo ministro, quanto sul programma complessivo di cui quel ministro è
espressione, inopinatamente cristallizzato nel “contratto per il governo di
cambiamento” a cui si è in precedenza fatto cenno. Se questo è vero, più che
limitarsi a non accogliere la proposta del Presidente del Consiglio incaricato
relativa alla nomina del ministro, il Presidente della Repubblica avrebbe allora
dovuto manifestare questi rilievi in sede di conferimento dell’incarico,
rifiutando il conferimento di detto incarico al rappresentante di una maggioranza
portatrice di un programma di governo caratterizzato da molteplici dubbi di
legittimità costituzionale.
Inoltre - dinanzi alla
fase di stallo in cui al momento versano le istituzioni, una volta esaurita la
seconda fase delle consultazioni con il conferimento del “mandato esplorativo”
ai Presidenti di Camera e Senato, e prendendo atto della difficoltà delle forze
politiche di dare vita ad una maggioranza parlamentare degna di tale nome -, è lecito domandarsi se non sarebbe stato
preferibile per il Capo dello Stato procedere direttamente allo scioglimento
delle Camere e restituire così la parola agli elettori, declinando una
soluzione che avrebbe portato ad un radicale superamento della crisi
istituzionale in atto, piuttosto che favorirne l’ulteriore aggravamento.
Carlo Dore jr.
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