giovedì, gennaio 26, 2012

IN DIFESA DI ANTONIO INGROIA, PARTIGIANO DELLA COSTITUZIONE.

“Un magistrato deve essere imparziale quando esercita le sue funzioni – e non sempre certa magistratura che frequenta troppo certi salotti lo è -, ma io, confesso, non mi sento del tutto imparziale. Anzi, mi sento partigiano: partigiano non solo perché sono socio onorario dell’ANPI, ma soprattutto perché sono un partigiano della Costituzione. E fra chi difende la Costituzione e chi quotidianamente cerca di violarla, violentarla, stravolgerla, so da che parte stare”.

Le parole pronunciate da Antonio Ingroia in occasione dell’ultimo congresso del PDCI sono state giudicate inopportune dalla prima commissione del CSM, la quale ha di fatto chiesto – anche con il voto favorevole del consigliere del PD Guido Calvi – di valutare se tali dichiarazioni possano in futuro incidere sulle valutazioni relative alla professionalità del PM palermitano.

Ingroia “inopportuno”, dunque: inopportuno per voto bipartizan. Inopportuno perché “partigiano” reo confesso, inopportuno perché partigiano della Costituzione.

Ma è davvero così “inopportuno” che un magistrato da sempre schierato in prima linea tanto nella lotta a Cosa Nostra quanto nelle grandi battaglie a difesa della legalità costituzionale manifesti in maniera aperta la sua adesione ai principi della Carta? Dinanzi al tanto agognato crepuscolo di una stagione caratterizzata da quello che Giancarlo Caselli ha efficacemente definito “l’assalto alla Giustizia” messo in atto dal governo Berlusconi e dalla maggioranza che lo sosteneva, è forse il caso di interrogarsi su quale significato possa riconnettersi alla perifrasi “partigiano della Costituzione”.

A mio avviso, “partigiano della Costituzione” è il magistrato che, fedele al modello della separazione dei poteri, interpreta il principio secondo cui “i giudici sono soggetti solamente alla legge” come soggezione non alle esigenze di questo o quel capo-partito (per quanto assecondate dalla contingente maggioranza politica), ma alla legge intesa come momento di attuazione di quei valori di eguaglianza e solidarietà da cui la Carta Fondamentale è permeata, partendo dal presupposto che la soggezione alla legge implica, prima ancora, la soggezione alla Costituzione. E’ il magistrato che rifiuta l’idea di una giustizia “a due velocità”, inflessibile con gli ultimi e silenziosamente permissiva verso gli uomini di potere: che garantisce (attraverso la difesa del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale) l’effettiva eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge. E’ il magistrato che sanziona i comportamenti dei titolari delle cariche pubbliche che non adempiono i loro doveri con disciplina ed onore, valori troppo spesso smarriti nel folle tourbillon di cricche, faccendieri, coordinatori, agenti di spettacolo, grands commis e giovani clientes che ha scandito l’ultima fase del ventennio berlusconiano.

Ma, soprattutto, partigiano della Costituzione è il magistrato che intende la propria imparzialità come mancanza di pregiudizio, come capacità di valutare con equilibrio e rigore le varie situazioni che possono essere sottoposte all’esame dell’ufficio nel quale egli è chiamato ad operare, senza che detta imparzialità debba per forza di cose tradursi in una sorta di asettica insensibilità ai grandi temi che animano il dibattito civile.

E allora, le parole del partigiano Ingroia sono state davvero così inopportune? E’ stato davvero così inopportuno affermare pubblicamente che “fra chi difende la Costituzione e chi quotidianamente cerca di violarla, violentarla, stravolgerla so da che parte stare”?

Forse no. Forse sono state meno inopportune delle troppe incertezze, manifestate nel recente passato da alcuni settori dell’area riformista, nel difendere i magistrati in prima linea nella lotta alla corruzione ed alla criminalità organizzata dai molteplici “assalti alla giustizia” programmati dalla precedente maggioranza nell’esperienza di governo appena conclusa. Forse sono state meno inopportune delle incertezze manifestate da questi settori dell’area riformista al momento di schierarsi a difesa di un magistrato come Antonio Ingroia: partigiano “reo confesso”, in quanto partigiano della Costituzione.

Carlo Dore jr.

(http://www.carlodore.blogspot.com/)

domenica, gennaio 08, 2012

“QUELLA DI PINOCHET NON FU UNA DITTATURA”: MEMORIA CONDIVISA E CULTURA DELLA MENZOGNA.

“Quella di Pinochet non fu una dittatura”, ma un molto più tollerabile “regime militare”. Nel tentativo di consegnare al suo Cile una “memoria condivisa”, e come tale emendata da “incrostazioni ideologiche” e da “visioni parziali”, il presidente Pinera si è armato di scolorina e ha disposto la cancellazione della parola “dittatura” dai manuali scolastici destinati ai giovani studenti della Repubblica di Santiago.

Il revisionismo tipico della recente contro-cultura italica di colpo solca l’Atlantico, varca la catena andina e si diffonde nel cuore del continente americano: la destra cilena mette in esecuzione il progetto cullato dal bibliofilo Dell’Utri, che da anni propone di ripulire i libri di storia dalle pericolose contaminazioni del pensiero bolscevico, magari integrandoli con note a margine estratte dai discussi e discutibili (documento o patacca?) Diari del Duce di cui è curatore e prefatore.

“Quella di Pinochet non fu una dittatura”, la creazione di una “memoria condivisa” val bene un piccolo sacrificio in termini di verità. “Quella di Pinochet non fu una dittatura”: meglio stemperare, smussare soprassedere, sminuire. Meglio stendere una rassicurante, grigia cappa di oblio sulle bombe che rasero al suolo il palazzo de La Moneda, sulle torture del lager di Pisagua, sui voli della morte, sugli eccidi di massa perpetrati all’interno del Estadio Nazional, dove le grida degli oppositori falcidiati dalle mitragliatrici si confondeva con il rumore metallico delle pallottole e con il suono gutturale delle risate sparate senza soluzione di continuità dai boia in divisa verde, mentre un insopportabile effluivio di alcool, sudore, sangue, sigarette americane, violenza e disperazione si diffondeva nel cielo sopra Santiago.

L’odore della paura, l’odore della morte, l’odore della dittatura.

“Quella di Pinochet non fu una dittatura”: meglio che la gente dimentichi, che non sappia, che non continui a ricordare. Pinera recepisce il ragionamento di Berlusconi: Pinochet, al pari di Mussolini, può al massimo essere definito come un despota “benigno” che al massimo mandava gli oppositori in vacanza al confine. “Quella di Pinochet non fu una dittatura”: questa è la pietra angolare della “memoria condivisa”, una cattedrale di cartapesta costruita nel cuore del deserto della menzogna.

Già, perché sotto la cappa grigia del negare ad ogni costo continua ad agitarsi un fantasma inafferrabile: un fantasma fatto di ricordi, di musica, di libri, di parole. Le parole di quanti non hanno mai smesso di praticare quello che Gherardo Colombo ha efficacemente definito “il fantasma della memoria”; le parole di Patricia Verdugo, cronista implacabile degli anni in cui il Cile era soggiogato all’artiglio del Puma; le parole di Victor Jara, poeta e cantautore trasformato nel fantasma di una libertà lontana e perduta; le parole scandite sulle note degli Inti Illimani, colonna sonora senza fine di una stagione di fuoco e sogno; le parole di Pablo Neruda, poeta dell’amore che voleva cambiare il mondo; ma, soprattutto, le parole gettate con coraggiosa indifferenza da Salvador Allende in faccia ai gerarchi della giunta militare, benedetti da Roma come da Washington: siete tutti compromessi, la Storia vi giudicherà.

Già, la Storia. La Storia ha da tempo emesso il suo giudizio, separando la ragione del torto, le vittime dai carnefici, la legittima difesa di un’idea dalla bieca cultura della sopraffazione. La Storia ha emesso il suo giudizio, e la parola “dittatura” è stata impressa a fuoco sulla copertina di ogni libro dedicato al golpe del 1973, all’assalto alla Moneda ed al regime di Pinochet: immutabile ed insensibile alla scolorina di Pinera come alle patacche di Dell’Utri; alle ardite acrobazie verbali di quanti tentano di costruire la cattedrale della “memoria condivisa” nell’instabile deserto della cultura della menzogna.

Carlo Dore jr.