sabato, dicembre 26, 2015

IL GHIGNO DEL VINCITORE

“Che brutta fine ha fatto Silvio Berlusconi” osservano immalinconiti i commentatori di tutto il mondo, assistendo alla inarrestabile disgregazione di Forza Italia e alla disarmante diaspora di parlamentari azzurri verso l’orizzonte del Partito della Nazione. Già, che brutta fine ha fatto il Cavaliere: impegnato a respingere l’OPA ostile lanciata da Salvini su quel che resta del centro-destra, sbeffeggiato nelle aule giudiziarie dalle starlette delle notti di Arcore, abbandonato perfino dal luogotenente Verdini e dal citareda Bondi, partecipa da attore non protagonista alla new age della politica italiana, assecondando passivamente la transizione dal bipolarismo muscolare che ha caratterizzato il suo ventennio al sostanziale dominio del partito trasversale berevettato da Renzi. Si chiude un’epoca, ne comincia un'altra: da capo commedia a figurante, che brutta fine ha fatto Berlusconi.

Eppure, l’abbraccio tra Lotti e Verdini, la strombazzata adesione di Manuela Repetti al percorso riformatore in atto, perfino la conversione di Renata Polverini sulla via di Rignano bastano a far germinare il seme di un dubbio, volutamente snobbato da renziani della prima e della seconda ora: e se l’apogeo della Leopolda fosse, in verità, la sublimazione del berlusconismo nella sua più intima essenza? E se il Patto del Nazareno, utilizzato da Renzi come trampolino per intraprendere la sua personalissima scalata al piano nobile di Palazzo Chigi, avesse conservato intatto il suo vigore? E se Berlusconi, dietro il cadente mascherone del monarca morente, continuasse a celare il ghigno beffardo dell’eterno vincitore?

Cullato dalle amazzoni del Cerchio Magico, il Cavaliere vede allontanarsi lo spettro di processi ed eterni oppositori: la minaccia del Ruby-gate è stata disinnescata a seguito di una sentenza destinata ad impegnare (per la particolare lettura del reato di concussione per induzione in essa proposta) le riflessioni degli studiosi per gli anni a venire; il mito della rottamazione – lungi dal risolversi in un epocale ricambio generazionale – ha semplicemente condannato all’eterna minorità quei pochi esponenti dell’area democratica dichiaratisi indisponibili a barattare la loro coerenza personale con uno strapuntino sul carro del vincitore, lanciato in piena corsa sulla via delle larghe intese; la retorica del “o con noi, o rosicone” ha silenziato una volta per sempre quella fetta di società civile la cui mobilitazione a presidio dei valori repubblicani aveva impedito la metamorfosi delle istituzioni democratiche in apparati asserviti ai capricci del sultano di Cologno Monzese.

Il sindacato non esiste più, il jobs act realizza quel sistema di flessibilizzazione del mercato del lavoro (consistente in gran parte nell’abrogazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori) pervicacemente perseguito da Maroni e Sacconi, il combinato disposto Italicum – ddl Boschi delinea, nell’indifferenza generale, un sistema istituzionale non dissimile da quello tratteggiato dai saggi di Lorenzago, il tema del conflitto di interessi viene considerato pressoché irrilevante nell’ambito del dibattito politico attuale. C’è tanta conservazione nella rivoluzione, la rottamazione presenta un fortissimo retrogusto di restaurazione: il sistema – Paese imposto da Renzi non è lontano da quello promesso da Berlusconi agli adepti del nuovo miracolo italiano.

Gli alfieri del nuovo corso sorridono e scuotono la testa: ma quale conservazione? Ma quale restaurazione? La contrapposizione destra-sinistra non ha più ragion d’essere, le riforme servono all’Italia a prescindere dalla connotazione ideologica che le ispira: la nuova frontiera è il Partito della Nazione, perno di un sistema basato sulla ubris del capo carismatico, e appena vivacizzato dalle ruspe di Salvini e dagli urlacci di Grillo.

Eppure, il seme di quel maledetto dubbio continua a germinare, gettando una macchia di unto sul candore dei sorrisi che accompagnano l’attuazione della svolta buona: il dubbio che la brutta fine a cui Berlusconi sta andando incontro consista, in verità, nella piena realizzazione degli obiettivi personali ed economici perseguiti dall’anziano leader nel breve periodo, nel totale completamento di un progetto politico cullato nell’arco di un ventennio; il dubbio che la decomposta maschera del monarca morente sia utile a celare l’ennesima esibizione del beffardo ghigno del vincitore.


Carlo Dore jr.

sabato, settembre 26, 2015

LETTERA APERTA A VANNINO CHITI: DALLA DEMOCRAZIA PARLAMENTARE ALLA LEADERCRAZIA SORRIDENTE.

Gentile Senatore,

ho letto con attenzione il suo articolo pubblicato su “Huffington post”, nel quale descrive il confronto sulle riforme istituzionali consumatosi in seno al Partito democratico come produttivo di una mediazione “degna della nostra Costituzione”. Proprio in ordine all’esito di tale confronto – anche alla luce delle posizioni da Lei coerentemente sostenute in questi mesi – ritengo opportuno spendere qualche considerazione ulteriore, per valutare se la riforma in atto possa considerarsi effettivamente “degna” della nostra Carta Fondamentale, e se la mediazione a cui Lei si richiama non si sia di fatto tradotta, per la minoranza interna, nell’ennesima occasione mancata.

Circa la “dignità costituzionale” delle proposte da Lei avanzate, se da un lato non si può dubitare del fatto che l’elettività dei senatori e l’attribuzione alla nuova Camera alta di più penetranti funzioni di garanzia abbiano limitato alcune delle più evidenti storture del ddl Boschi, è d’altro innegabile che la “mediazione” consacrata nei tre emendamenti al momento all’esame del Senato non abbia inciso sulle principali criticità del disegno riformatore in atto. Continua infatti a non ravvisarsi, tra le varie forze presenti in Parlamento, quel substrato di valori comuni da cui trae vita il “compromesso alto” nel quale ogni Costituzione si identifica; persiste l’anomalia costituita da un Governo che di fatto ancora il destino della legislatura ad una materia (come quella delle riforme costituzionali) di esclusiva competenza parlamentare; emergono quotidianamente (anche attraverso le dichiarazioni ultimative rivolte all’indirizzo del Presidente Grasso) i limiti di una classe dirigente forse non all’altezza di riformare quell’autentico capolavoro di ingegneria giuridica che è la Carta elaborata da Calamandrei e Mortati; rimane fermo l’ordito normativo (composto dall’Italicum e dal ddl Boschi) che assegna al leader del partito di maggioranza il controllo pressoché totale delle istituzioni.

Insomma, Gentile Onorevole, l’elettività dei Senatori (intermediata dalla ratifica ad opera dei Consigli regionali: a questo punto, percepita come un inutile appesantimento del processo di selezione dei membri della Camera alta) attenua ma non esclude il pericolo della “svolta autoritaria” più volte denunciato da Gustavo Zagrebelsky, rallenta ma non neutralizza il passaggio dalla democrazia parlamentare a quella sorta di leadercrazia sorridente di cui il Presidente del Consiglio continua ad immaginarsi regista e primo attore. 

Le riflessioni appena formulate ci portano a esaminare i contorni dell’occasione mancata dalla minoranza del PD, apparsa, ancora una volta, più preoccupata di salvaguardare l’unità del partito che di preservare certi valori fondamentali: dinanzi alle continue esondazioni di un Segretario che basa la sua leadership più sulla fidelizzazione che sul confronto, la minoranza interna ha avuto l’opportunità di certificare agli occhi dei cittadini – se del caso, anche attraverso il voto parlamentare -  l’esistenza di un “Partito della Costituzione” non disposto a scambiare la “buona manutenzione costituzionale” (praticabile attraverso interventi circoscritti, come la riduzione del numero dei deputati e dei senatori, la riforma del sistema delle immunità, l’integrazione del Senato con alcuni rappresentati delle autonomie locali) con il radicale stravolgimento della forma di governo delineata dalla Carta, di una sinistra che non accetta compromessi su quegli stessi valori fondamentali a cui ho poc’anzi fatto cenno. Sarebbe stato, a quel punto, onere e responsabilità del segretario – premier (altra insopportabile anomalia italiana) scegliere se preservare l’unità del partito impostando l’azione di governo in osservanza di questi valori fondamentali, o se procedere in spregio di essi, cercando il consenso di altre forze politiche per supportare l’azione riformatrice del suo Esecutivo.

Con la mediazione consacrata nei tre emendamenti al ddl Boschi, la minoranza del PD ha scelto una diversa strada: quella di un accordo che attenua ma non risolve le criticità della riforma costituzionale di prossima approvazione, quella di un utile ma non decisivo compromesso al ribasso destinato ad assumere, nell’immediato futuro, i caratteri dell’ennesima occasione mancata.
Con immutata stima,

Carlo Dore jr.

sabato, agosto 29, 2015

MISSIONE INCOMPIUTA Romano Prodi – Marco Damilano – Laterza Editore, 2015 – pp. 170

Può essere un’interpretazione dell’Ulivo affermare che i sindacati non vanno ascoltati e che tutti i corpi intermedi, nessuno escluso, vadano distrutti o indeboliti? Spesso vanno doverosamente contrastati, ma ascoltati sempre. L’Ulivo è stato un progetto inclusivo che ha sempre cercato di mettere insieme le diverse identità, come unica condizione per chiudere le esperienze negative del passato e creare la condizione più importante di una democrazia: una diffusa partecipazione unita ad una prospettiva di una reale alternanza di governo”.

Nel libro – intervista curato da Marco Damilano, Romano Prodi ripercorre, con lo sguardo rivolto al passato ed i pensieri sempre proiettati verso il futuro, le tappe fondamentali della sua Missione incompiuta. Dalla cattedra di Economia e politica industriale presso l’Università di Bologna agli studi condotti sotto la guida di Andreatta, dalla presidenza dell’IRI al Ministero dell’industria, da Palazzo Chigi a Bruxelles fino alle porte del Quirinale, riprendono forma le speranze, i sogni, le illusioni e i fallimenti di una generazione che poteva davvero cambiare l’Italia, prima di rassegnarsi alla retorica dell’Uomo solo al comando.

Sì, potevano davvero cambiare l’Italia i protagonisti di quella Missione incompiuta, girando con un pullman tra le tensioni di un Paese squassato dalla tempesta di Tangentopoli, ferito dalle bombe e dal susseguirsi degli scandali, in parte già ipnotizzato dall’incanto catodico del miracolo italiano, dallo strato di cerone che patinava il perverso connubio tra potere economico e rigurgiti di autoritarismo destinato ad innervare il ventennio berlusconiano. La forza delle idee contro un’idea di forza, la serietà contro l’illusione, la partecipazione contro l’egocratismo: quella doveva essere l’Italia dell’Ulivo, quella doveva essere la nostra Italia.

Frammentazione e mancanza di pensieri lunghi, scelte legislative improvvide (specie in ordine alla mancata regolamentazione del conflitto di interessi), il tentativo impossibile di ricondurre all’alveo della normale dialettica democratica le varie componenti di una destra che già palesava la propria struttura a-costituzionale hanno pregiudicato l’attuazione di quel progetto politico, già di per sé forse condizionato da un originario errore di impostazione, identificabile nella tendenza a superare la centralità dei partiti per favorire diverse forme di partecipazione, nella convinzione che i “partiti delle tessere” non fossero più in grado di assecondare le istanze di rinnovamento che pervenivano da alcuni settori del popolo del centro-sinistra, nell’illusione che il “partito leggero” di impostazione clintoniana potesse favorire la commistione tra radici culturali diverse.

La ricostruzione storica si salda alla stretta attualità dinanzi all’emersione di due fondamentali interrogativi: può il PD considerarsi la naturale evoluzione del progetto dell’Ulivo? Può Renzi accreditarsi come il legittimo erede di quella stagione? La risposta di Prodi gronda dell’amarezza di chi ha speso parte della sua vita in una missione destinata a rimanere incompiuta: “Senza l’Ulivo non ci sarebbe stato il PD. In questo senso si può dire che il PD ne è figlio. Un figlio che ne ha ereditato l’obiettivo di mettere insieme tutti i riformismi. Questa è l’eredità dell’Ulivo, ma il PD la valorizza a giorni alterni”.

L’Ulivo voleva unire, non dividere; voleva includere, non escludere; voleva impegnare il background culturale costituito dalla tradizione della sinistra progressista e del cattolicesimo democratico per costruire un ponte verso il futuro, non risolvere le sfide della modernità in un brutale confronto generazionale. No, il PD della post-Leopolda, il partito “del” leader e “per” il leader non condivide né lo spirito né i valori che ispiravano il disegno di Prodi. Costituisce semmai il prodotto delle contraddizioni, dei limiti e degli errori dei protagonisti di quel cambiamento mancato, la prevedibile (ancorché evitabile) conseguenza del tentativo di imporre il “partito leggero” sulle più tradizionali forme di militanza politica, l’effetto collaterale che residua tra le macerie di una straordinaria Missione incompiuta.  


Carlo Dore jr.

domenica, giugno 21, 2015

DAL “PARTITO SCALABILE” AL “PARTITO CASERMA”: ASCESA E DECLINO DEL “POLITICO D’OCCASIONE”.

Interruzione di ogni mediazione interna, superamento del dogma delle primarie per la selezione delle candidature locali, irrigidimento delle strutture territoriali: i risultati delle ultime amministrative – contrassegnate da un astensionismo dilagante e dalla dilapidazione di un capitale politico di quasi sette milioni di voti – risuonano dalle parti del Nazareno come la classica campana a morto che segna la fine di un’epoca: quella del “partito scalabile” grazie al sentiero delle primarie aperte, quella dell’esaltazione dei “politici d’occasione” che impongono la forza della leadership empatica sulla debolezza dei partiti destrutturati.
            
Quella del “politico d’occasione”, secondo Michele Prospero, è una categoria che cattura da sempre le riflessioni degli studiosi dell’arte del potere: Machiavelli identificava il tratto principale del “politico d’occasione”nella capacità di cogliere l’attimo concesso dalle circostanze, per appropriarsi dello scettro del comando; Max Weber nel “dilettantismo politico”, nella concezione della politica come “occasione per la realizzazione di rendite o profitti” e nella sostanziale indifferenza per le dinamiche che della politica governano lo svolgimento.
            
Tra Machiavelli e Weber, Renzi non mai rinnegato la propria natura di “politico d’occasione”, accentuando a tal punto le caratteristiche di tale figura da rimanerne, alla lunga, prigioniero. Dismessi i panni del disciplinato scolaro dei maggiorenti del centro-sinistra fiorentino, ha sfruttato le divisioni in seno all’area democratica per accreditarsi come il candidato civico in lotta con la casta dei partiti nella conquista di Palazzo Vecchio. Le primarie aperte alla benedizione di parte della destra gigliata ne hanno fatalmente premiato il disegno, la legge elettorale dei sindaci – che ribalta, grazie al lavacro lustrale dell’elezione diretta, il rapporto fiduciario tra primo cittadino e consiglio comunale – ne ha rilanciato l’immagine di leader impolitico che governa solo grazie al favor populi. De-strutturazione dei partiti e cultura plebiscitaria della leadership, giovanilismo e camice bianche, hastag e parole in libertà: ecco il patto fondativo della Leopolda, ecco l’alba della rottamazione, della brutale guerra preventiva mossa in confronto di un gruppo di persone, prima ancora che di un progetto politico.
           
Il paladino della democrazia partecipata chiede e ottiene una modifica dello statuto: di nuovo le primarie, di nuovo aperte, ma stavolta perse miseramente, per lo sgomento di salotti buoni e mondo dell’imprenditoria. Il “politico d’occasione”    non si ferma, ed attende una nuova opportunità: gliela forniscono i 101, che pugnalano alle spalle Prodi per neutralizzare il “governo di cambiamento” teorizzato da Bersani; gliela fornisce un gruppo dirigente disposto ad auto rottamarsi in nome del primum vivere, per poi ritrovarsi sotto le insegne del nuovo idolo. Le primarie per la segreteria, Letta dimissionato dalla forza di un tweet, il Patto del Nazareno prima benedetto e poi abiurato, la minoranza interna ridicolizzata a colpi di “Fassina chi?”: le occasioni del “politico d’occasione” si susseguono, fino a Palazzo Chigi, fino alla bulimica notte del 41%, che annebbia la capacità di analisi e scatena mai sopite pulsioni egocratiche.
           
Machiavelli lascia spazio a Weber, il politico d’occasione si conferma un politico dilettante. Dalle riforme istituzionali al mercato del lavoro, dalla legge elettorale alla riforma della scuola, ferisce il suo elettorato con un’impostazione di governo volutamente iper-conservatrice, debitamente edulcorata dal mantra del rinnovamento. Flirta con gli industriali e combatte con il sindacato; rinuncia a costruire un ampio campo di forze a sostegno della sua leadership per porre la sua figura al centro di un conflitto politico permanente: o con me o contro di me, o per il rinnovamento o per la conservazione. Alla lunga, si tratta di un’occasione sprecata: gli elettori disertano le urne, i voti sono spariti, la notte del 41% diventa solo una storia da narrare.
           
Le campane del Nazareno iniziano a suonare a lutto, il “politico l’occasione” scorre le pagine di Machiavelli e tenta di porre un riparo. Contrordine, compagni: basta con il dissenso interno, comunque silenziabile attraverso il ricorso ossessivo al voto di fiducia; basta con le primarie ad ogni costo, specie se determinano candidature non approvate dalla segreteria nazionale; basta con il partito leggero, se un rafforzamento delle articolazioni locali garantisce un più immediato controllo dei territori. Dalle “primarie ad ogni costo” al ritorno del centralismo democratico; dal “partito scalabile” al “partito caserma”: il politico d’occasione è pronto a rinnegare sé stesso, pur di recuperare il terreno perduto.
           
Ma le campane del Nazareno continuano a suonare a lutto: ormai è tardi, e il politico d’occasione non può liberarsi dal dogma su cui ha costruito la sua figura. Ormai è tardi, per recuperare i consensi di un elettorato sfinito dal vuoto di rappresentanza e paralizzato dall’attesa di un alternativa che ancora non  si manifesta. Ormai è tardi, per procrastinare l’incombente fine di una stagione: quella dei partiti scalabili, e dell’esaltazione dei “politici d’occasione”.


Carlo Dore jr. 

lunedì, maggio 11, 2015

STORIA DI ESTELLA, RIVOLUZIONARIA COSTITUENTE

Raccontare la storia di Estella significa raccontare la storia di una generazione: una generazione forgiata dal fuoco di due guerre, riscaldata dall’eco delle canzoni partigiane, nutrita dalle ceneri di Auschwitz, e capace di riversare la forza di quell’esperienza nella Costituzione del ’48, in quel modello di democrazia parlamentare di cui legislatore attuale non sembra percepire la vitalità.

“Proletaria nel profondo”, “rivoluzionaria professionale”, Teresa Noce nasce partigiana: nasce cioè come donna di parte che condivide l’odio di Gramsci per gli indifferenti, per i mediatori, per i pontieri, per i professionisti della contiguità rispetto ai centri di potere. Applicandone per un attimo la visione agli schemi della politica attuale, è lecito supporre che il “Partito della Nazione” sarebbe apparso ai suoi occhi come un’anomalia inconcepibile, che le malcelate corrispondenze tra forze progressiste e vecchi militanti della destra più estrema sarebbero state indicate come la peggiore tra le aberrazioni.

Teresa Noce nasce partigiana, e da partigiana attraversa i momenti più drammatici dell’epoca dei grandi totalitarismi: dalla guerra di Spagna alla resistenza francese; dai lager di Ravensbruk e Holleischen al crollo del nazismo; dalle ferite dell’Italia liberata dal fascismo all’entusiasmo che supportava la ricostruzione di un Paese in ginocchio. Fuoco, canzoni, cenere, forza: la storia di Estella è la storia della battaglia di Guadalajara, con gli italiani del battaglione Garibaldi costretti a combattere contro le milizie di compatrioti inviate da Mussolini a sostegno del Generalissimo Franco, e scambiate poco prima per truppe di supporto; è la storia della Marsigliese con cui le strade di Parigi soffocavano gli ordini delle SS, per simboleggiare, ancora una volta, la supremazia della forza di un’idea su un’idea basata esclusivamente sull’uso della forza; è la storia della conferenza sui diritti delle donne, organizzata nel chiuso di una baracca della morte, supremo sussulto di dignità di un gruppo di deportate che non volevano rassegnarsi ad un destino apparentemente ineluttabile; è anche la storia di un partito che ancora conservava la propria duplice dimensione di casa – caserma, dimostrandosi tanto capace di mobilitarsi per alleviare la fame dei bambini di Milano quanto inflessibile nel sanzionare i propri militanti che avevano ceduto alla tentazione di un piatto di lasagne.

Ma nella storia di Estella c’è anche altro: c’è il lavoro di parlamentare, dedicato principalmente alle leggi sulla maternità e sulla parità del salario; e, prima ancora, c’è l’esperienza dell’Assemblea Costituente, contrassegnata, in particolare, dal rifiuto di assecondare le indicazioni di Togliatti in ordine all’approvazione dell’art. 7 della Carta, che attribuisce rilevanza costituzionale ai Patti Lateranensi. La tattica del Migliore - finalizzata a garantire la legittimazione democratica del PCI dinanzi al Vaticano, e ad arginare le pulsioni reazionarie di Papa Pacelli – e la necessità di rafforzare il compromesso tra masse socialiste e popolo cattolico (lucidamente rappresentata negli scritti di Franco Rodano) non piegarono l’anima della rivoluzionaria professionale: i Patti Lateranensi costituivano pur sempre un baluardo del ventennio, e come tale andavano superati.

La storia di Estella, si diceva, è la storia di una generazione: delle sue battaglie, dei suoi successi e dei suoi fallimenti. Ma proprio mentre la sua narrazione volge al termine, questa storia ci affida almeno due spunti di riflessione, alla luce dei quali è possibile procedere ad una più attenta analisi del percorso riformatore intrapreso, forse incautamente, dal legislatore attuale. Una Costituzione, per sua natura, non si identifica nella semplice espressione della volontà di una contingente maggioranza politica, ma si basa su un “compromesso alto” tra partiti di diverso orientamento, uniti da un substrato di valori comuni. Con riferimento all’Assemblea Costituente, questo substrato comune risedeva proprio nella partecipazione di tutte le sue componenti al percorso della Resistenza e della Liberazione: la Costituzione, in altri termini, nasce dallo stesso fuoco, dalle stesse ceneri, dalle stesse canzoni, dalla stessa forza da cui è permeata la storia di Estella.

Ecco perché il legislatore attuale avrebbe il dovere di dedicarsi all’elaborazione di riforme ispirate all’attuazione dei principi della Carta, piuttosto che procedere nella pericolosa avventura di una revisione costituzionale di fatto sostenuta solo da alcune componenti della maggioranza parlamentare: perché quel substrato di valori comuni in grado di supportare il compromesso alto in cui si identifica il patto costituente allo stato non esiste. Perché il legislatore attuale non ha una storia come quella di Estella da poter raccontare.

Carlo Dore jr.

giovedì, aprile 23, 2015

SENTINELLA, A CHE PUNTO E' LA NOTTE?

“Sentinella, a che punto è la notte?”. I militanti dell’area democratica, i tanti “partigiani della Costituzione” che si sono mobilitati a difesa dei principi della Carta hanno affidato mille volte la domanda del viandante di Isaia alle tenebre del ventennio berlusconiano, animati dalla speranza di trovare una sentinella in grado di rispondere loro che le tenebre stavano per lasciare spazio alla luce di una nuova stagione, di rassicurarli in ordine al fatto che l’alba stava per arrivare.  

“Sentinella, a che punto è la notte?”. E’ stata lunga, la notte che il berlusconismo ha imposto all’Italia: una notte scandita dal costante tentativo di imporre la voce del padrone sul sistema di garanzie delineato dai costituenti, di sospendere quel sistema di garanzie per favorire una pericolosa modificazione delle regole della dialettica democratica. Eppure, proprio l’esito del referendum confermativo del 2006 aveva idealmente certificato l’esistenza di un ampio schieramento di forze capace di individuare nella Costituzione la ragione fondante del suo proporsi quale credibile alternativa per il governo del Paese. Il sistema aveva ancora degli anticorpi, l’alba era davvero sul punto di sorgere.

“Sentinella, a che punto è la notte?”. Condanne, scandali, crisi economica e il normale incedere degli anni sembrano aver affidato una volta per sempre Berlusconi alle cure di amazzoni e servizi sociali; Forza Italia è diventata terra di conquista per ambiziosi cacicchi e clientes più o meno attempati; la componente più radicale della destra italiana trova nelle sortite di Salvini la propria unica valvola di sfogo. E allora, perché si continua a discutere di svolte autoritarie, di democrazia in pericolo, di apologia dell’Uomo solo al comando? Perché l’alba tarda tanto ad arrivare?

Forse, quegli anticorpi a cui si è poc’anzi fatto cenno non hanno impedito che il verbo berlusconiano contaminasse anche parte dell’area democratica, forse il ventennio appena concluso ha irreversibilmente stravolto i principi cardine del sistema politico italiano. Tanto basta a spiegare la lenta de-strutturazione dei partiti (che hanno dismesso la loro funzione di strumento di partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese, per assumere quella di semplice cassa di risonanza delle decisioni di un Capo), l’iper-personalizzazione della leadership – con gli amministratori locali spesso elevati all’impropria funzione di fantasiose icone popolari - , la trasformazione della militanza in brutale fidelizzazione, ispirata alla costante reiterazione del mantra “o con il principe, o traditore”. La semplificazione prevale sul ragionamento, gli slogan sui programmi di ampio respiro, lo scontro generazionale sterilizza il confronto delle idee: è la politica del nuovo millennio, osservano alcuni commentatori; è l’inizio della post-democrazia, rilevano altri.

“Sentinella, a che punto è la notte?”. Politica degli hastag o post-democrazia giustificano la graduale erosione della qualità democratica che caratterizza la stagione di riforme in atto, rendono quasi ineluttabile l’allontanamento dei depositari del potere politico dal sentiero tratteggiato dai costituenti. Le crisi di governo si consumano su twitter e non attraverso il voto parlamentare, il continuo ricorso alla questione di fiducia costituisce il normale strumento per rimuovere gli ostacoli che rallentano la marcia trionfale degli innovatori, l’immagine di Montecitorio ridotto a bivacco di manipoli sembra più una prospettiva da perseguire che una minaccia da scongiurare. Democrazia degli hastag, post-democrazia, o, se preferite, “democrazia decidente”: come prima e più di prima, pericolosamente imperniata sulla sublimazione della figura del “primus super pares”.

“Sentinella, a che punto è la notte?” Allora come ora, una parte dei democratici italiani cerca una sentinella che indichi la strada verso l’alba, che offra una prospettiva di cambiamento in attuazione di quel programma politico che dalla Costituzione è divisato. Ma la sentinella non può che fornire una risposta per certi versi meno incoraggiante di quella con cui viene congedato il viandante di Isaia: se volete interrogare, interrogate pure. Ma se aspettate l’alba, vi conviene tornare un’altra volta.


Carlo Dore jr.

venerdì, aprile 03, 2015

“LETTERA A UN FIGLIO SU MANI PULITE” Gherardo Colombo – Garzanti ed. – pp. 1-94

<<Perché ha vinto la cultura della corruzione rispetto alla cultura della Costituzione? Perché hanno vinto le regole secondo le quali la funzione pubblica viene esercitata per ottenere privilegi per sé e per coloro che fanno parte del sistema anziché nell’interesse di tutta la comunità? Io credo che le regole di Tangentopoli abbiano prevalso perché non è attraverso un processo penale che si può risolvere un problema endemico come la corruzione in Italia. Le indagini di Mani Pulite hanno infatti contribuito a svelare un sistema sommerso ma incredibilmente diffuso, rispetto al quale il processo penale può solo dare risposte specifiche su quel che è già successo. Altri avrebbero dovuto assumersi la responsabilità di prevenirlo>>.

Tangentopoli, ventitre anni dopo: il pamphlet di Gherardo Colombo ripercorre le tappe fondamentali di una rivoluzione mancata, raccontando le speranze e le delusioni intrecciate dai destini dei protagonisti dell’indagine che davvero poteva cambiare l’Italia. “Lettera a un figlio su mani pulite” non offre solamente un lucido spaccato del clima da basso impero che ha fatto da contorno al crepuscolo della Milano da bere, la descrizione obiettiva del sistema di corruzione istituzionalizzata che ha travolto la Prima Repubblica: no, questo libro è qualcosa di più, e, per certi versi, qualcosa di peggio. E’ il ritratto impietoso di un Paese incapace di autoriformarsi, è il filo rosso che disvela la connessione mai interrotta tra un passato da non dimenticare e un presente senza speranza.

Cosa è stata Mani Pulite? E’ stata la scintilla che poteva bruciare la prateria: è stata l’arresto di Mario Chiesa, avvenuto in un coriandolio di mazzette umide esplose dalle tubature del Pio Albergo Trivulzio. E’ stata “l’isolata mela marcia” che ha deciso di rivelare i segreti del resto del cestino; è stata la ricostruzione del sistema di potere governato dalla logica della “dazione ambientale”: la corruzione era divenuta regola inderogabile, tutti pagavano perché le tangenti erano considerate “fisiologicamente” dovute.

La gente trasudava rabbia e indignazione, i magistrati vennero (loro malgrado) eletti a nuovi eroi popolari: l’invettiva di Craxi contro il sistema dei partiti finì sommersa sotto un mare di monetine, il volto terreo di Forlani inchiodato al banco dei testimoni divenne l’icona di una classe dirigente al capolinea. Condanna dopo condanna, patteggiamento dopo patteggiamento, prescrizione dopo prescrizione, la Prima Repubblica era pronta a collassare, gli equilibri insuperabili che per mezzo secolo avevano retto le sorti del Paese venivano di colpo spazzati via da un irrefrenabile afflato legalitario. Questa è stata, Mani Pulite: un indagine giudiziaria, che alimentava il sogno di un’Italia diversa.

Poi, cosa è successo? Cosa ha trasformato quel sogno in una rivoluzione mancata? Perché la corruzione ha prevalso sulla cultura della Costituzione? E’ successo che il favor populi  verso l’azione degli inquirenti è venuto meno quando le inchieste hanno iniziato ad investire, oltre ai grandi della politica, anche quei tanti cittadini comuni che del sistema della dazione ambientali erano comprimari o testimoni consapevoli; è successo che il vento del cambiamento è stato intercettato non dagli epigoni della questione morale, ma dagli stessi grand commis della Milano da bere, abili nel trasformare, agli occhi dell’opinione pubblica, le indagini del pool di Borrelli in una violenta battaglia politica, mobilitando il Paese in una sorta di conflitto permanente tra i guelfi della legalità e i ghibellini dell’impunità. E’ successo, più in generale, che una politica incapace di autoriformarsi ha di fatto integralmente demandato alla magistratura l’improprio ruolo di forza moralizzatrice della res publica: l’area del “moralmente inaccettabile” è stata artificiosamente obliterata in quella del “non penalmente rilevante”, e lo strumento legislativo è stato spesso utilizzato non per favorire l’attuazione dell’interesse generale, ma per garantire la conservazione di privilegi e immunità.

Il resto è cronaca: dalla “cricca degli appalti” alla rete della P4, il sistema della dazione ambientale sembra avere recuperato la sua originaria efficienza, e della stagione di Mani Pulite rimane solo il ricordo, che le pagine di Colombo saldano alla stretta attualità. Il ricordo di una stagione attraversata dal sogno di un Paese diverso; il rimpianto, intenso e bruciante, che accompagna ogni rivoluzione mancata.
Carlo Dore jr.

(cagliari.globalist.it)

venerdì, marzo 13, 2015

COSA VUOLE, QUESTO BERSANI?

“Bersani la faccia finita con la storia dei nominati della riforma – Renzi, lui che ha nominato l’on. Di Gioia”, tuona attraverso la sua pagina Facebook l’ex parlamentare sassarese Guido Melis, in un post ripreso per Cagliari.globalist da Tino Tellini. Bersani, il grande nominatore di ieri, oggi combatte i nominati di Renzi; la metamorfosi di Bersani, da grand commis delle liste bloccate a pasdaràn delle preferenze a ogni costo: cosa vuole, questo Bersani? Taccia, e chieda scusa, in nome della coerenza.

Emendate dai toni ultimativi a cui fanno costantemente ricorso i fautori della “svolta buona”, le riflessioni di Melis e Tellini risultano però inficiate da un duplice difetto di impostazione, da una sorta di doppio bug che li conduce a declinare una costruzione lontana anni-luce dalla realtà dei fatti. Un duplice errore di impostazione, dunque, che riguarda sia le posizioni assunte dal PD di Bersani sul problema del rapporto tra elettori ed eletti, sia l’effettiva portata della critica mossa dal leader della minoranza dem ai progetti di riforma istituzionale al momento all’esame del Parlamento.

In ordine al tema del rapporto tra elettori ed eletti, Melis e Tellini non considerano che  proprio l’esigenza di superare il sistema di liste bloccate imposto dal porcellum -  e di restituire, seppure in parte, ai cittadini il diritto di concorrere alla selezione dei parlamentari – ha costituito la ragione ispiratrice della scelta di utilizzare le primarie quale criterio principale per la formazione delle liste in occasione delle politiche del 2013 (primarie a cui, per inciso, lo stesso Guido Melis ebbe modo di partecipare, ottenendo oltre duemila voti nel collegio di Sassari), e di riservare al Segretario la determinazione di un numero minimo delle candidature proposte nei vari collegi (si tratta del c.d. “listino”, nel quale risultava inserito l’on. Di Gioia).

Lungi dall’atteggiarsi a “grande nominatore”, Bersani ha pagato in prima persona i limiti che caratterizzano le primarie come strumento di selezione della classe dirigente, rimanendo vittima del perverso gioco di personalismi, ambizioni individuali e veti incrociati alimentatosi in seno ai gruppi parlamentari democratici, fino a deflagrare nel “fuoco amico” della notte dei 101. Non grande nominatore, ma democratico autentico; non grand commis delle liste bloccate, ma prima vittima della debolezza strutturale che induce i partiti di oggi a demandare ad una base elettorale fluttuante e magmatica la selezione della propria classe dirigente.

Venendo poi al secondo difetto di impostazione dianzi richiamato, le contestazioni dell’ex segretario democratico alle riforme imposte dal Governo Renzi non si appuntano esclusivamente sulla presenza dei “capi-lista bloccati”, ma abbracciano l’intero assetto istituzionale che può derivare dall’approvazione del combinato disposto Italicum –ddl Boschi, e che l’ala sinistra del PD non ha, fino ad ora, contrastato con l’adeguata incisività. Vertono, in altre parole, sulla presenza di un’unica Camera composta principalmente da nominati, e sulla corrispondente degradazione del Senato alla marginale condizione di “dopo-lavoro” per sindaci e consiglieri regionali; sull’asserita intangibilità del Patto del Nazareno, accordo inconcepibile tra forze politiche prive di un substrato comune di valori di riferimento; su un’idea di Costituzione intesa come atto di forza opposto dall’attuale maggioranza di governo ai rilievi che provengono dalla minoranza interna; sulla potenziale metamorfosi del segretario del partito di maggioranza in dominus incontrastato delle istituzioni, sulla pericolosa transizione dalla democrazia parlamentare ad una sorta di principato modello 2.0.

Cosa vuole allora, questo Bersani? Perché non china la testa e tace, in nome della coerenza?

Bersani vuole solo riaffermare l’idea di democrazia che ha sempre sostenuto, vuole continuare a battersi per un modello di partito inteso come strumento di partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese e non come cassa di risonanza delle decisioni del Capo. Una posizione in linea con la storia personale di un politico dimostratosi capace di anteporre la coerenza con i propri principi alle legittime ambizioni di leadership; una posizione per la quale Bersani non è in alcun modo tenuto a scusarsi: né davanti a Guido Melis, né davanti al Paese.

Carlo Dore jr.

sabato, febbraio 28, 2015

NEL VICOLO CIECO, TRA UNA "COSTITUZIONE INCONCEPIBILE" E UNA "NON COSTITUZIONE".

Ce lo chiede l’Europa”: il costante richiamo alle superiori (e, spesso, imperscrutabili) strategie elaborate nei palazzi di Strasburgo costituisce l’argomento più utilizzato per sterilizzare ogni pericolosa discussione in ordine all’attuazione di quei processi di riforma potenzialmente irricevibili per parte dell’area democratica italiana. “Ce lo chiede l’Europa”: è dunque l’Europa a chiedere una semplificazione del procedimento legislativo, una riduzione della rappresentatività democratica, una forma di governo caratterizzata dalla centralità del potere esecutivo e dalla graduale erosione delle prerogative del Parlamento. “Ce lo chiede l’Europa”: è l’Europa che invoca il superamento del bicameralismo paritario, fossilizzando l’Italia nel vicolo cieco costituito dall’alternativa tra una Costituzione inconcepibile e una non – Costituzione.
            
“Costituzione inconcepibile”, “non – Costituzione”. Il vicolo cieco a cui ho appena fatto cenno deriva da un colossale equivoco in ordine all’esistenza del patto costituente, di quel “compromesso alto” tra forze politiche rappresentative di interessi contrapposti ma unite da un substrato di valori comuni, presupposto indispensabile per individuare (riprendendo le parole di Calamandrei e Zagrebelsky) il sistema di regole che i popoli si danno quando sono sobri, a valere per quando saranno ebbri.
            
Ora, un simile substrato di valori comuni – ravvisabile, con riferimento ai protagonisti dell’Assemblea costituente, nell’afflato libertario della Resistenza e della lotta al nazifascismo – non poteva evidentemente supportare il Patto del Nazareno: il popolo del centro-sinistra non può infatti condividere alcun valore con gli esponenti di un partito il cui leader indiscusso risulta – alla luce di quanto disposto dall’art. 54 della Carta Fondamentale, nella parte in cui impone ai titolari di pubbliche funzioni di adempiere le stesse con disciplina e onore – di fatto estraneo al sistema costituzionale vigente. Ma se una Costituzione figlia del Patto del Nazareno sarebbe stata qualificabile come “Costituzione inconcepibile”, una Carta generata da una mera “prova di forza” della maggioranza politica attuale semplicemente “non” sarebbe una Costituzione, non sussistendo quel “compromesso alto” in cui il patto costituzionale si concreta.
            
Chiamati a prendere atto della mancanza delle condizioni necessarie per rimettere mano alla Carta, i sostenitori del processo riformatore in atto si trincerano dietro la reiterazione del mantra: “voi non volete le riforme, ma le riforme ce le chiede l’Europa!”. Vale dunque la pena di chiedere: quali riforme l’Europa, nella sua dimensione di comunità democratica, chiede  all’Italia? Quali riforme sono davvero necessarie per riallineare il nostro Paese alle grandi democrazie occidentali? Forse, l’approvazione di una legge anti-corruzione, eterna promessa di una stagione di governo che fatica a trovare il suo zenit; forse, la riforma del reato di falso in bilancio, autentica voragine del nostro ordinamento penale; forse, una riforma del sistema universitario che, lungi dal recepire l’aberrante distinzione tra atenei di “serie A” e di “serie B”, offra una concreta prospettiva di crescita a quanti hanno deciso di impegnarsi nella ricerca scientifica.
            
Tutte proposte di riforma, quelle appena indicate, che presuppongono l’attuazione dei principi contenuti nella Carta Fondamentale, e che non ne impongono in alcun modo lo stravolgimento. Perché l’Europa, alla fine, questo ci chiede: di riconoscere l’attualità e la vitalità della nostra Costituzione, e non di fossilizzare il Paese nel vicolo cieco costituito dall’alternativa tra la Costituzione inconcepibile e la non – Costituzione.

Carlo Dore jr. 

sabato, gennaio 31, 2015

IL PROCESSO A LUSSU: STORIA DI UNA VELA, E DI UN GIUDICE A CAGLIARI

Testo della relazione tenuta in occasione dell'iniziativa "Emilio Lussu, combattente per la libertà", svoltasi a Cagliari il 31/1/2015


Parlare del processo ad Emilio Lussu, ripercorrere gli avvenimenti che precedettero la sua deportazione a Lipari, significa per me raccontare una storia: una storia di dolore e di giustizia, di eroismo e di viltà, di oppressione e di inestinguibile desiderio di libertà. Questa è la storia di un processo: ma soprattutto è la storia di una vela, e di un “giudice a Cagliari”.

La nostra storia comincia in una notte dell’autunno del 1926, in una Piazza Martiri gremita di camicie nere assetate di sangue: del sangue del Cavaliere dei Rossomori, del sangue di quel fiero soldato che proprio non si rassegnava a genuflettersi al fascio, del sangue di un uomo che non tremava mai: né di fronte alle pallottole austriache, né dinanzi all’assalto apportato alla sua casa da ben tre diverse colonne di manipoli. Un’esplosione, un grido ed il corpo di un giovane milite sull’asfalto bastarono a disperdere il furore delle squadre della morte: la piazza, piena fino a quel momento, si svuotò in un baleno; i fascisti non c’erano più. Ricomparvero solo mentre Lussu veniva tratto in catene, per reclamare il gesto eroico di un’esecuzione a sangue freddo.

A nulla valsero i richiami ai principi basici del diritto costituzionale e del diritto penale, alla norma che riconosce ad ogni individuo il diritto a difendersi: il Regime attendeva una condanna esemplare. La attendeva Mussolini, che si era appena intestato davanti al Mondo intero la responsabilità dell’assassinio di Matteotti; la attendeva il Conte Cao di San Marco, il vecchio amico di Lussu che ne aveva tradito la fiducia in cambio di un posto al sole del fascismo della seconda ora; la attendeva l’avvocato Pazzaglia, altro militante sardista convertitosi al fascismo dopo avere espresso l’intento di tagliarsi le vene pur di non indossare fez e orbace. Fu proprio lui a notificare in carcere al compagno di un tempo il provvedimento di radiazione dall’ordine forense, ad abbandonarlo ad un destino che sembrava segnato: “io sono vivo, tu morirai solo”.

Il Regime attendeva una condanna esemplare, ma c’era un Giudice a Cagliari: in base al codice di procedura penale allora vigente, la decisione sull’esito dell’istruzione spettava ad un collegio composto da tre magistrati (la c.d. Sezione d’accusa della Corte d’Appello). I consiglieri investiti del caso si manifestarono subito favorevoli al proscioglimento dell’illustre imputato. Le pressioni del Presidente della Corte d’Appello, insediatosi d’imperio nel collegio, valsero appena ad attenuare la portata della decisione: non assoluzione, ma eccesso di legittima difesa. Era comunque uno smacco per il prestigio di Mussolini, che ancora una volta non era riuscito a prevalere su quell’avversario emerso dall’inferno delle trincee: intervenne il Ministro Rocco, intervenne la Corte di Cassazione, per annullare la sentenza e disporre una nuova istruttoria.

Le trombe dei fascisti della prima e della seconda ora ripresero temporaneamente fiato: questa volta non potevano esserci sorprese, questa volta il rinvio a giudizio appariva scontato, e quel maledetto ardito sarebbe stato processato davanti al Tribunale di Chieti, da quegli stessi magistrati che avevano consegnato i loro nomi alla storia stringendo la mano insanguinata dei sicari di Matteotti. Le trombe dei fascisti ripresero fiato, ma Cagliari non era Chieti: a Cagliari c’era ancora un giudice capace di anteporre le ragioni del diritto all’arroganza del potere.

Arcangelo Marras, Decio Lobina, Antonio Manca Casu (i componenti della nuova Sezione d’accusa) si riunirono per scrivere la sentenza di sabato pomeriggio, nel silenzio del Tribunale reso deserto dalla giornata prefestiva. Quando, il lunedì seguente, il Regime tornò alla sua normale attività, la sentenza era cristallizzata dalla forza del giudicato: assoluzione con formula piena, l’omicidio del milite (la cui famiglia aveva dignitosamente rinunciato a costituirsi parte civile) era giustificato dalla scriminante della legittima difesa.

Il fascismo consumò la sua vendetta disponendo la deportazione di Lussu a Lipari: innocente, e per questo nemico dello Stato. Ma mentre il Cavaliere dei Rossomori veniva tradotto al porto, accompagnato dal mesto saluto di una città in stato d’assedio, ecco quella vela, attraversare veloce il golfo di Cagliari. Ecco quella vela, ed ecco quel grido, la cui intensità non è stata scalfita dall’incedere del tempo: “Viva Lussu! Viva la Sardegna!”.

La forza del diritto prevale sull’arroganza del potere, un inno alla libertà spezza il ferro di una catena: la storia del processo a Lussu è tutta qui. A distanza di quasi un secolo dai drammatici eventi che ho provato a raccontare, non ci è dato sapere a quale destino andò incontro il coraggioso timoniere di quella barca, né quale sorte attese i tre componenti della Sezione d’accusa della corte cagliaritana, che mi piace immaginare sorridenti, mentre depositano la loro sentenza in cancelleria. Sappiamo però che la storia del processo a Lussu finisce in qualche modo col saldarsi alla stretta attualità: in un’epoca in cui alcuni parlamentari sono arrivati ad occupare le scalinate di un Tribunale, paragonando i magistrati ai sicari delle BR, il ricordo di quel Giudice a Cagliari ribadisce la necessità di far prevalere sempre e comunque le ragioni del diritto sulle contingenti esigenze dei depositari del potere politico, di individuare ancora nel valore dell’autonomia e dell’indipendenza della Magistratura una vela bianca capace di resistere ai marosi di una politica debole. Debole nel riformare, ma ancor più debole nell’autoriformarsi.

Carlo Dore jr.

(cagliari.globalist.it)

lunedì, gennaio 05, 2015

DIARIO DI UN NOVENNATO TRISTE

Mentre scorrono le ultime battute del discorso con cui Napolitano ha annunciato le sue dimissioni da Capo dello Stato, si ha l’impressione di ripercorrere le tappe più importanti del lento declino a cui la Seconda Repubblica è andata incontro nel corso degli ultimi nove anni: un novennato, quello trascorso da Napolitano al Quirinale, contraddistinto dal graduale detrimento della qualità democratica delle istituzioni, dalla cristallizzazione delle larghe intese (consolidatesi anche in ragione dell’incapacità delle attuali forze di opposizione di abbandonare la sgangherata ridotta della protesta ad ogni costo, per aderire al progetto del “governo di cambiamento) come strumento “ordinario” di gestione del potere, dal radicale superamento del sistema di equilibri delineato dai Costituenti da parte di una classe politica che individua nella subordinazione al capo carismatico la propria esclusiva stella polare.
            
Sì, è stato un novennato triste quello in cui Napolitano si è trovato – in parte, suo malgrado – a svolgere le funzioni di regista e di primo attore; un novennato triste, nel quale solo la presenza sul colle di un rigoroso custode della Carta, di un partigiano della Costituzione, di un combattente alla Pertini avrebbe potuto porre un freno alla deriva egocratica imposta al Paese dall’apoteosi del berlusconismo. Ma del partigiano, del combattente, dell’uomo di resistenza Napolitano non ha mai avuto la vocazione, preferendo dotarsi di un diverso profilo. Ultimo erede della nobile tradizione migliorista, ha sempre privilegiato le larghe intese rispetto ai conflitti epocali: fin dai tempi dell’alternativa democratica, fin dal momento in cui la feroce polemica con Berlinguer sulla necessità di avviare un’interlocuzione a sinistra con il PSI di Carxi lo costrinse a rinunciare alla poltrona di capogruppo dei comunisti a Montecitorio.
            
Dialogo, riformismo, larghe intese. Napolitano è rimasto coerente con sé stesso durante il novennato triste: ha promulgato il Lodo Alfano senza muovere rilievi, malgrado i macroscopici profili di incostituzionalità che ne inficiavano il contenuto; ha ceduto al ricatto berlusconiano sul decreto salva-liste del febbraio 2010 (ennesimo prodotto scellerato di un legislatore sciatto e grossolano); ha offerto al Cavaliere l’onore delle armi delle dimissioni senza crisi di governo, risparmiandogli l’ordalia parlamentare cui sarebbe andato incontro all’indomani dello strappo consumato da Fini a Mirabello, prima che le provvidenziali truppe scilipotiche rispondessero “presente” all’estremo grido di dolore di Verdini e Dell’Utri.
            
Benedetta dall’insediamento del Governo Monti – unità di crisi chiamata a salvare le casse dello Stato dalla minaccia di un default imminente -, la stagione delle larghe intese ha finito col perpetrarsi nella legislatura in corso: il tradimento dei 101 ha di fatto costretto Napolitano a prorogare la sua permanenza al Quirinale, spegnendo al contempo le ultime polemiche conseguenti alla scelta del Presidente di attivare lo scudo del conflitto di attribuzione in confronto della Procura di Palermo per ottenere la distruzione delle intercettazioni relative alle sue conversazioni con Nicola Mancino, a sua volta coinvolto nelle indagini sulla trattativa tra istituzioni e Cosa Nostra. Come era prevedibile, quella riconferma ha avuto un costo: a Bersani non è stato consentito di sfidare in Parlamento il fronte grillino con la sua proposta del governo di cambiamento; si è giunti al Patto del Nazareno ed all’asse Renzi – Berlusconi passando per il sacrificio del Governo Letta, altra vittima illustre di cui è lastricato il sentiero delle riforme condivise.

Il resto è pura cronaca: tracciato il percorso che dovrà portare al superamento dell’impianto costituzionale vigente, l’ultimo dei miglioristi può finalmente occupare la sede a lui assegnata al piano nobile di Palazzo Gustiniani, accompagnato dal plauso unanime delle forze politiche impegnate nella costruzione della Terza Repubblica. Le battute conclusive del suo ultimo discorso alla Nazione lasciano però spazio all’eco di un dubbio, al tarlo di una riflessione scomoda destinata, per forza di cose, a condizionare le analisi di storici e politologi: forse, un partigiano della Costituzione, un rigoroso custode della Carta, un combattente alla Pertini avrebbe saputo limitare il detrimento della qualità della democrazia a cui l’Italia è andata incontro negli ultimi anni, a contenere la deriva egocratica delle istituzioni che ha scandito le tappe principali di quello che rimane un novennato triste.

Carlo Dore jr.

(cagliari.globalist.it)