Proprio
mentre viene data alle stampe una nuova antologia dei più importanti
interventi di Enrico Berlinguer (corredata da un'illuminante
prefazione di Miguel Gotor), il richiamo del Capo dello Stato
all'esperienza del 1976 ed al tentativo di “desistenza” condotto
da Democrazia Cristiana e Partito comunista riporta di nuovo la
stagione del compromesso storico al centro del dibattito politico. E'
possibile individuare in un nuovo patto di reciproca legittimazione
tra le principali forze in campo (patto destinato a risolversi in
un'intesa di ampio respiro che ricomprende la scelta del nuovo
Presidente della Repubblica, la formazione di un “governo di
scopo”, la revisione della seconda parte della Costituzione e la
riforma della legge elettorale) la soluzione della crisi
istituzionale che al momento paralizza il Paese? Sono davvero maturi
i tempi per un nuovo “compromesso storico”, con Berlusconi e
Bersani (sempre più isolato nella sua determinazione di rifiutare
la prospettiva di un “patto col diavolo”) nei panni che furono di
Moro e Berlinguer?
L'ottimismo degli sherpa
berlusconiani e della sempre più nutrita schiera di pontieri
democratici collide apertamente con lo scetticismo manifestato sul
punto da storici, politologi e costituzionalisti, ai quali non sfugge
il (per certi aspetti, maldestro) tentativo di decontestualizzare una
delle più belle pagine della storia recente al fine di attribuire
una parvenza di dignità morale ad un'operazione poco digeribile per
gran parte dell'opinione pubblica.
Uniti dalla condivisione
dell'esperienza dell'Assemblea costituente (e reciprocamente
vincolati dal “patto tra uomini liberi” consacrato attraverso
l'approvazione della Carta Fondamentale), DC e PCI avviarono un
percorso di superamento del sistema di blocchi che caratterizzava il
sistema politico dell'Italia del dopoguerra sulla base di una serie
di presupposti comuni: l'anima popolare propria di entrambi i
partiti; la vocazione solidaristica che animava tanto il socialismo
quanto il cattolicesimo democratico; la concorde percezione della
necessità di difendere la democrazia dalla minaccia di un'imminente
deriva autoritaria, ispirata ora al modello greco, ora al modello
cileno. DC e PCI erano figli della stessa storia, erano il prodotto
di una matrice comune che giustificava e sosteneva il compromesso
storico: la capacità di rappresentare le due anime della cultura
democratica sviluppatasi dopo la lotta di liberazione.
Proprio
la mancanza di una matrice culturale comune preclude, per contro, la
configurabilità di un analogo compromesso tra il PDL e quel che
resta dell'area democratica, protagoniste di uno scontro lungo
vent'anni e tutto incentrato sulla figura di Silvio Berlusconi, icona
di quella “politica personalizzata” che ha ridotto l'Italia alla
triste condizione di democrazia minore. Non una storia comune, ma un
conflitto tra storie, consumatosi tra leggi ad
personam
e cene eleganti, mercati impazziti e faccendieri senza scrupoli,
logiche impunitarie e parlamentari precettati per l'occupazione dei
palazzi di giustizia. Sulla base di queste riflessioni, ecco che le
larghe intese invocate da Napolitano non possono che apparire
incompatibili con le posizioni assunte dalla sinistra italiana nel
recente passato, assumendo i connotati non di un nuovo compromesso
storico, ma di un tanto illogico quanto pericoloso compromesso
“a-storico”.
Se si segue questa linea di
ragionamento, emerge dunque come l'accordo di ampio respiro
prospettato da Berlusconi si esaurisca in un lucido baratto da
consumarsi sulle ceneri di quegli stessi principi della Carta
Fondamentale che tante volte ne hanno limitato le ambizioni: la
fiducia ad un esecutivo di corto respiro – destinato per forza di
cose a sgretolarsi tra le mille turbolenze di una legislatura di
transizione - in cambio del tanto agognato salvacondotto, e della
designazione di un Capo dello Stato “non ostile” alla futura
approvazione di altre norme su misura. Una prospettiva che le forze
progressiste sono oggi chiamate a scongiurare, sia per fedeltà ad
una storia che non merita di essere sacrificata sull'altare del
potere, sia per banale istinto di sopravvivenza.
Una prospettiva da scongiurare,
procedendo alla nomina di un Presidente della Repubblica
qualificabile – più che come figura “ampiamente condivisa” -
come un autentico guardiano della Costituzione. Un guardiano della
Costituzione capace di tutelare l'integrità delle istituzioni
dinanzi ai rigurgiti reazionari che la crisi politica in atto rischia
di produrre; un guardiano della Costituzione, in grado di difenderne
i principi dalle mille insidie che si celano nelle pieghe del
compromesso “a-storico”.
Carlo Dore jr.
(articolo pubblicato su
cagliari.globalist.it)
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