E
alla fine, la “guerra civile” annunciata tra squilli di tromba dagli house
organ di casa Mediaset si è risolta in una mesta adunanza di attempati
aficionados del berlusconismo ante
litteram, stoicamente irremovibili nel loro proposito di sfidare il caldo
torrido del primo agosto romano per mettere in piazza l’estrema autodafé in onore del
Capo ferito a morte dagli ermellini rossi.
Non sono arrivati i cinquecento
pullman invocati da Daniela Santanché, non hanno fatto presa i cartelloni grondanti
del sudore di Giuliano Ferrara, non ha trovato seguito il rigurgito nostalgico
di Gasparri, asceso ad una copia del fatal balcone per arringare una folla
immaginaria. Falchi e colombe sono
rimasti confinati all’ombra di un palco forse non autorizzato, mentre le facce lunghe di Cicchitto e Verdini descrivevano bene il clima della kermesse: facce
livide di rabbia per una decisione che priva il Cavaliere dello status di
incensurato; facce scure di delusione per una sentenza che rischia di far
tramontare una volta per sempre la sciagurata stagione delle larghe intese; facce
semplicemente stravolte dal bollore dei sampietrini. Faccette nere,
intonerebbero in punta di fez gli oplites di un altro (e tristemente noto) Uomo
della Provvidenza.
Bondi prova a recuperare il piglio
da pretoriano dopo la sonora rampogna ricevuta dal Quirinale, gli inni da
campagna elettorale disturbano la quiete dei romani ancora confinati tra le
mura dell’Urbe, la guerra civile può cominciare. Berlusconi conquista il palco
tenendo per mano la sparuta fidanzatina, mentre il suo sguardo vaga lungo la
strada semideserta: l’esercito di Silvio, alla fine, ha dimostrato la stessa
capacità di mobilitazione di un plotone di boy scout.
Un sorriso per i fotografi, e parte
il copione del video-messaggio tra bandiere e scrivanie immacolate, seguito da
un’imbarazzante sensazione di deja vu: la frode fiscale non c’è mai stata; la
condanna è la conseguenza di un complotto ordito da toghe rosse e stampa
ostile; la Cassazione – fino a ieri, descritta come il “Giudice a Berlino” del
mugnaio di Potsdam – si è rivelata la quinta colonna dei congiurati armati di
codici e pandette. Tutto già visto, tutto già sentito. Ecco allora il coupe de theatre in grado di destare dal
torpore il migliaio di fans accalcati sotto Palazzo Grazioli, il titolo ad
effetto per i cronisti a caccia di uno straccio di notizia degno di tale nome:
la magistratura non è un potere dello Stato, in quanto sprovvista di
legittimazione popolare.
E’ troppo: mentre il fantasma del
barone di Montesquieu minaccia di occupare in pianta stabile il quartiere
nobile di Palazzo Grazioli per vendicare l’ennesima lesione arrecata al principio
della separazione dei poteri, le tante anime democratiche sparse in giro per l’Italia
tirano il classico sospiro di sollievo, vagheggiando la conclusione dell’indigeribile
fase della pacificazione ad ogni costo: davvero il centro-sinistra vuole
continuare a riconoscere responsabilità di governo al leader di uno schieramento
che dimostra di non accettare le regole basilari della convivenza democratica?
Davvero il Pd intende procedere ad una riforma della Costituzione di comune
accordo con un piccolo egoarca che della Carta ignora persino i principi fondamentali?
Il comizio finisce, tra lacrime di
cartone ed applausi di ordinanza: Silvio riguadagna in tutta fretta la via di
Arcore, seguito dal peso di una condanna inevitabile e schiacciato dallo
spettro della conseguente incandidabilità; gli aficionados abbandonano a capo
chino via del Plebiscito: la guerra civile è ufficialmente rinviata a data da
destinarsi. Rimane solo spazio per la disperazione di Bondi rampognato dal
Quirinale e per le doglianze della Santanché, ancora in attesa dei cinquecento
pullman con cui dare l’assalto al palazzo della Cassazione: falchi e colombe
dispersi nel caldo del primo agosto, faccette nere smarrite nel silenzio
assordante della strada deserta.
Carlo
Dore jr.
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