L’elettore
progressista medio (non mediocre) è solitamente portato a ravvisare nella
mancanza di rinnovamento della classe dirigente la causa principale – o addirittura
esclusiva – della crisi politica che attanaglia l’Italia dagli albori del terzo
millennio: crisi di consenso, crisi di identità, crisi di rappresentatività. C’è
ansia di rinnovamento, sotto il variegato cielo della sinistra italiana: un’ansia
di rinnovamento che si è tradotta in una montante avversione verso le
tradizionali forme di militanza, e verso le strutture che di tale forme di
militanza costituivano la sede naturale; un’ansia di rinnovamento che ha
trovato sfogo ora nel fuoco fatuo dei tanti presunti leader consumatisi nel
breve arco di una stagione, ora nella retorica della rottamazione, ora nei
rigurgiti reazionari che tuttora assecondano l’invettiva grillina.
Ma liquidare la crisi in atto come il
mero corollario di una “questione generazionale” superabile attraverso l’avvento
del homo novus (identificato ora nel sindaco
in carriera, ora nel manager di successo, ora nell’imprenditore con la decisione
in punta di dita) può essere da un lato riduttivo, d’altro lato fatalmente
pericoloso. Riduttivo, perché il semplice superamento di una classe dirigente
non impone di individuare le cause che ne hanno determinato il fallimento;
pericoloso, perché il rinnovamento personale non offre alcuna garanzia di una
politica rinnovata.
E’allora necessario domandarsi se la
crisi della politica non sia una crisi dei partiti prima ancora che dei gruppi
dirigenti che dei partiti hanno il controllo, e se questa crisi non trovi la
propria ragion d’essere nella dismissione del modello di partito inteso come
centro di formazione e mobilitazione conseguente alla necessità di assecondare
quell’ansia di rinnovamento a cui si è in precedenza fatto cenno. Una crisi figlia
dell’illusione che il carisma del leader possa sopperire alla mancanza di un
progetto politico di ampio respiro; dell’idea di obliterare le strutture del
partito a favore del rapporto diretto tra elettore ed eletto (facilitato dall’avvento
dei social network); dell’esaltazione delle primarie come “momento di
partecipazione” utile a coprire le debolezze di partiti ormai incapaci di
selezionare le proprie candidature sulla base di un percorso di militanza degno
di tale nome.
Le conseguenze prodotte dall’imposizione
del “partito leggero” sono deflagrate all’inizio della legislatura in corso: il
candidato scelto tramite le primarie giubilato dalla rete di compromessi e “veti
incorciati” che regola la coesistenza tra culture inconciliabili; i
parlamentari che disattendono le indicazioni del partito per assecondare gli umori
di twitter; militanti disorientati dinanzi al triste spettacolo di un partito
incapace di proporre una linea politica unitaria, e ridotto alla avvilente condizione
di trampolino verso le cariche istituzionali oggetto delle ambizioni dei vari
cacicchi sparsi sul territorio nazionale.
Come se ne esce? Non se ne esce. Non
senza prendere definitivamente coscienza di una incontrovertibile realtà: il
rinnovamento generazionale presuppone l’esistenza di un substrato oggettivo, di
una struttura solida in grado di favorire la formazione di quella nuova classe
dirigente della quale tanto si avverte la necessità. Dunque, prima di partire
alla conquista del partito rinnovabile, è necessario ritornare alla dimensione
del “partito” vero, di un partito idoneo ad assolvere alla propria
costituzionale funzione di strumento di partecipazione dei cittadini alla vita
politica del Paese.
E’ nel contesto del partito “vero”
che possono trovare applicazione i concetti di sperimentalismo democratico e di
lotta al catoblepismo declinati da Fabrizio Barca nel suo documento: nel
contesto di un partito capace di favorire il confronto tra esperienze diverse
per contribuire all’elaborazione di una proposta programmatica coinvolgente;
nel contesto di un partito che, rigorosamente separato dalla cosa pubblica, non
venga vissuto come opportunità di carriera per quelli che lo stesso Berlinguer
impietosamente definiva “boss e sotto-boss”.
Ed è sempre nel contesto del partito
vero che l’elettore progressista medio (e non mediocre) può rivedere la propria
posizione iniziale : la crisi della politica italiana non risolve invocando l’homo novus, magari legittimato dalle
primarie, ma promuovendo un percorso di rinnovamento all’interno di un partito
ritornato al suo tradizionale ruolo di centro di formazione e di elaborazione
politica: nella consapevolezza del fatto che l’esistenza di un partito vero
costituisce il presupposto imprescindibile per poter discutere di partito
rinnovabile.
Carlo
Dore jr.
( cagliari.globalist.it )
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