Le
notizie relative alle indagini sulla gestione dei fondi in dotazione ai gruppi
del Consiglio regionale – indagini che, come noto, coinvolgono alcuni esponenti
del PD della Sardegna – hanno riaperto, all’interno del centro-sinistra, il
dibattito in ordine all’attualità della questione morale: mentre alcuni
militanti affermano che la semplice esistenza di un’indagine non può incidere
sulle scelte dei partiti in ordine alla candidature per le ormai prossime
elezioni, altri esponenti della coalizione,
invocando “liste pulite”, segnalano la necessità di salvaguardare quella
“diversità etica” che, dai tempi di Berlinguer, caratterizza il patrimonio
culturale dei progressisti italiani.
A prescindere dalle specificità
della vicenda appena richiamata (gli indagati hanno infatti assicurato di
essere in grado di dimostrare “nel procedimento” la correttezza del loro
operato), il contrasto di opinioni in atto all’interno del centro-sinistra
sardo rappresenta l’occasione per rielaborare alcune considerazioni di
carattere generale sul controverso rapporto tra politica e giustizia, tra
necessaria tutela delle garanzie degli indagati e salvaguardia della legittima
aspirazione degli elettori ad essere rappresentati da una classe dirigente al
di sopra di ogni sospetto.
Preliminarmente,
occorre osservare come l’apertura di un procedimento penale e l’eventuale
trasmissione di un’informazione di garanzia non possono di per sé costituire
una ragione sufficiente per indurre un partito ad escludere automaticamente la
candidatura di un inquisito, dato che il PM è obbligato a procedere con le
indagini per valutare la fondatezza di ogni notizia di reato, e dato che
l’informazione di garanzia costituisce il presupposto indispensabile per il compimento
dei c.d. atti garantiti (interrogatorio, ispezione, confronto). Ciò chiarito,
non si può però non rilevare come il codice etico “flessibile” adottato dal PD
nel 2007 – in base al quale le valutazioni sulla candidabilità di una persona
indagata o imputata variano a seconda della natura del reato contestato – ha
già dimostrato, tanto a livello locale quanto a livello nazionale, la propria
inidoneità ad assecondare la richiesta (troppo spesso ignorata) di rigore nella
selezione della classe dirigente avanzata da iscritti e militanti in confronto
delle varie forze politiche dell’area democratica.
Ecco
allora che proprio la necessità di individuare il corretto punto di equilibrio
tra le esigenze di autonomia della politica rispetto all’azione della
magistratura e le istanze di moralità che pervadono l’elettorato mi induce a
rinnovare una proposta più volte avanzata nel corso degli ultimi anni: se
infatti, per le ragioni sopra esposte, l’esistenza di un’indagine non può
giustificare l’automatica esclusione di un candidato dalle liste, il discorso
muta completamente quando, nel disporre il rinvio a giudizio, il GUP attesta
l’esistenza di un impianto accusatorio tanto solido da determinare l’apertura
del dibattimento, ovvero quando, per i procedimenti c.d. a citazione diretta
(non caratterizzati cioè dal filtro dell’udienza preliminare), viene
pronunciata la condanna di primo grado.
Proprio
l’esistenza di un provvedimento (di rinvio a giudizio, o di condanna in primo
grado) pronunciato da un giudice terzo e imparziale può permettere
l’individuazione di quel punto di equilibrio a cui si è appena fatto cenno: con
l’eccezione dei reati c.d. d’opinione, i partiti del centro-sinistra potrebbero
cioè impegnarsi a non inserire nelle proprie liste candidati rinviati a
giudizio, ovvero - per i procedimenti a citazione diretta - condannati in primo
grado per un delitto punibile con pena
superiore ai due anni, e ad imporre ai propri candidati l’obbligo morale delle
dimissioni da ogni carica istituzionale in caso di rinvio a giudizio o condanna
per i medesimi delitti intervenuta dopo l’elezione.
La
soluzione appena prospettata sarebbe, da un lato, utile a mettere i partiti al
riparo dal logoramento conseguente al gioco di ombre, sospetti e veti
incrociati che sistematicamente fa da sfondo alla candidatura di persone
sottoposte a procedimento penale, e d’altro lato contribuirebbe a sterilizzare gli
argomenti di quei movimenti a dimensione esclusivamente protestataria, che
proprio nel diffuso senso di sfiducia del cittadini nei confronti delle
istituzioni trovano la loro linfa vitale.
Carlo Dore jr.
(cagliari.globalist.it)
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