Alcuni
dei commentatori che hanno esaminato la prima fase della “svolta buona” che il
Governo presieduto da Matteo Renzi avrebbe imposto alla politica italiana sono
concordi nell’individuare nella forte carica di “novità” insista nel modus operandi del giovane premier il
tratto distintivo della transizione verso la Terza Repubblica: novità nei
protagonisti (con i quarantenni finalmente installatisi nella stanza dei
bottoni), novità del linguaggio (con gli hastag che prevalgono sul
politichese), novità nei processi decisionali (basta con i caminetti: si
consolida il “patto di ferro” tra leader e popolo). Insomma: la generazione-Renzi costituirebbe la risposta all’istanza
di rinnovamento più volte formulata dai militanti dell’area democratica, il
tanto atteso elemento di rottura rispetto alle dinamiche perpetrate da una
classe dirigente responsabile dei fallimenti dell’Ulivo e dell’Unione, la
ventata di freschezza che spazza la polvere sedimentatasi sui sepolcri
imbiancati della sinistra italiana.
Ad una più attenta analisi,
tuttavia, siffatta carica di rinnovamento perde gran parte dell’incisività
mutuata da slides e battute da seconda serata, per esaurirsi più in un banale
cambio di corsia che in un’autentica inversione del senso di marcia. L’ascesa
dei fedelissimi del Capo ai quartieri nobili di Palazzo Chigi, la
semplificazione della comunicazione istituzionale –(con gufi, rosiconi,
professoroni e frenatori individuati quali nuovi nemici della Patria, in luogo
di toghe rosse, sindacalisti e giornalisti militanti), la concezione della
dialettica politica come un referendum permanente sulla figura del leader,
lungi dal costituire i capisaldi di una radicale rivoluzione culturale,
rappresentano la semplice riproposizione in salsa new age degli schemi di
esercizio del potere già collaudati nel corso del ventennio berlusconiano, il
pervicace eterno ritorno dei fantasmi di un passato che codici e sentenze
sembravano avere, una volta per sempre, consegnato ai libri di storia.
Ma vi è di più: la retorica della rottamazione non basta a coprire i molteplici punti di contatto tra la generazione – Renzi e quella classe dirigente che il premier-segretario ha più volte dichiarato di voler superare: Renzi non viene dalla luna, Renzi non è l’homo civicus che manda in pensione i boiardi della vecchia politica, il “papa straniero” che abbatte a colpi di tweet le antiquate liturgie partitocratiche, l’innovatore che si eleva al di sopra dei sepolcri imbiancati della sinistra italiana. No, Renzi è la logica conclusione della sequenza di eventi che ha condotto alla lenta eutanasia della sinistra italiana, il naturale prodotto delle determinazioni politicamente improvvide assunte da alcuni eredi del PCI dalla Bolognina in poi.
E’ il prodotto del costante
allontanamento dei vertici dei partiti dalle esigenze del mondo del lavoro e
dalle battaglie intraprese dal sindacato, derivante dalla tendenza a descrivere
il graduale detrimento di diritti e tutele come un inevitabile portato della
modernità. E’ il prodotto della frettolosa archiviazione della concezione
berlingueriana della “diversità”, e della accettazione delle larghe intese come
fisiologia estrinsecazione delle dinamiche democratiche. E’il prodotto della
scelta di accantonare la tradizionale forma di partito per abbracciare il
modello del partito leggero e di fatto identificabile solo tramite l’icona del
leader, scelta che Bersani ha osteggiato a tal punto da sacrificare segreteria
e premiership, nella missione impossibile di riempire con un anima sociale il
vuoto ideologico del gazebo veltroniano. Ma soprattutto, Renzi è il prodotto
delle mille concessioni accordate dai progressisti a settori sempre meno nobili
del moderatismo, della disponibilità della sinistra a rinunciare all’essenza
stessa della propria identità culturale per conquistare nuovi spazi di
consenso, per assicurarsi quella legittimazione democratica che la Storia
stessa le aveva già ampiamente riconosciuto.
No, Renzi non viene dalla luna, e la
retorica della rottamazione non impedisce di individuare il filo rosso che
unisce la Leopolda alla Bolognina, lungo il percorso segnato dalla polvere che
grava sui sepolcri imbiancati di quel che resta della sinistra italiana.
Carlo
Dore jr.
(cagliari.globalist.it)
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