Renato
Soru completa la sua scalata alla segreteria del Partito Democratico della
Sardegna proprio nel giorno in cui Renzi, rottamando definitivamente gli ultimi
presidi di quel che resta della sinistra italiana, si pone come unico
riferimento del Partito della Nazione, forte della benedizione di finanzieri,
imprenditori rampanti, seguaci della prima ora e novizi folgorati sulla via
della Leopolda.
Soru completa la sua scalata tra le
ovazioni dei soliti fedelissimi e gli applausi dei nemici di un tempo,
riposizionatisi sotto le insegne del neo-segretario ora per rinnovata
convinzione, ora per assecondare insondabili logiche di realpolitik, ora in quanto spinti dal naturale spirito di
sopravvivenza. Completa la scalata ad un partito ormai “pacificato”dal culto
dell’Uomo solo al comando, costretto a trincerarsi dietro uno strano unanimismo
di facciata, utile a coprire la mancanza di un progetto politico di ampio
respiro.
Esiste un’evidente sintonia tra le
dinamiche proprie della “comunità di destino” a cui l’ex Governatore ha di
recente fatto riferimento, nel tentativo di teorizzare il superamento della
dicotomia capitale-lavoro, e le logiche
ispiratrici degli ultimi capitoli dal Vangelo secondo Matteo: muore la cultura
della sinistra del lavoro e per il lavoro; viene superata la concezione del
partito inteso come centro di formazione della classe dirigente e come
strumento di partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese; la
stessa idea di democrazia parlamentare delineata dalla Carta Costituzionale si
riduce al vuoto simulacro di un’epoca che non esiste più.
Le ragioni dell’impresa prevalgono
sulle posizioni del sindacato, i finanzieri che dissertano sul superamento del
diritto di sciopero meritano più attenzione delle rivendicazioni di una piazza che
invoca diritti e tutele, il dissenso viene liquidato come l’estremo tentativo
di reazione di un gruppo di potere ormai privato di ogni massa di manovra, il
refrain del 41% si impone sui riferimenti ad una cultura politica radicata in
un secolo di battaglie democratiche. Una dimensione perfetta per esaltare la
vena plebiscitaria di Renzi, forte di un crescente consenso da brandire contro
gufi e rottamati; una dimensione perfetta per assecondare la “comunità di destino”
teorizzata da Soru, prototipo del self
made man dichiaratosi da sempre estraneo ai polverosi riti della politica
tradizionale.
Eppure, mentre si spegne l’eco degli
ultimi applausi sparsi tra Cagliari e Firenze, sulla scalata dei vincitori
continua a gravare il peso di un interrogativo inevaso, l’ombra di un dubbio
irrisolto, il fantasma di un equivoco troppo a lungo ignorato. Privato di una
cultura di riferimento, disconnesso sentimentalmente dal cuore pulsante del
proprio popolo, ridotto ad una sovrastruttura “capace di parlare all’intero
Paese” e “di raccogliere consensi a destra come a sinistra”, il nascente
Partito della Nazione non rischia di crescere come una forza senz’anima,
destinata, prima o poi, ad essere risucchiata da quello stesso vuoto ideologico
di cui oggi intende alimentarsi?
Gli oplites della Leopolda si limitano ad un’indifferente scrollata di
spalle: il Partito della Nazione si sostiene sul mito del 41%, il Partito della
Nazione guarda solamente al futuro, al successo di Renzi, al carisma di Soru.
Leader discussi e mai discutibili, in diretta empatia con il popolo delle
primarie, antepongono la loro individualità di uomini soli al comando a culture
e progetti politici. Fino a quando il venire meno di quell’empatia non ne appannerà
l’immagine di eterni vincenti; fino a quando spirito di sopravvivenza ed
insondabili logiche di realpolitik
non ritrasformeranno i fedeli alleati di oggi negli scatenati oppositori di
ieri. Fino a quando la realtà della crisi sociale in atto non li costringerà a
confrontarsi con l’assenza di un riferimento culturale a cui guardare, di un
progetto politico a cui ispirare la loro azione: per non essere risucchiati dal
vuoto ideologico su cui hanno cercato di costruire la loro forza senz’anima.
Carlo
Dore jr.
(cagliari.gobalist.it)
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