lunedì, gennaio 05, 2015

DIARIO DI UN NOVENNATO TRISTE

Mentre scorrono le ultime battute del discorso con cui Napolitano ha annunciato le sue dimissioni da Capo dello Stato, si ha l’impressione di ripercorrere le tappe più importanti del lento declino a cui la Seconda Repubblica è andata incontro nel corso degli ultimi nove anni: un novennato, quello trascorso da Napolitano al Quirinale, contraddistinto dal graduale detrimento della qualità democratica delle istituzioni, dalla cristallizzazione delle larghe intese (consolidatesi anche in ragione dell’incapacità delle attuali forze di opposizione di abbandonare la sgangherata ridotta della protesta ad ogni costo, per aderire al progetto del “governo di cambiamento) come strumento “ordinario” di gestione del potere, dal radicale superamento del sistema di equilibri delineato dai Costituenti da parte di una classe politica che individua nella subordinazione al capo carismatico la propria esclusiva stella polare.
            
Sì, è stato un novennato triste quello in cui Napolitano si è trovato – in parte, suo malgrado – a svolgere le funzioni di regista e di primo attore; un novennato triste, nel quale solo la presenza sul colle di un rigoroso custode della Carta, di un partigiano della Costituzione, di un combattente alla Pertini avrebbe potuto porre un freno alla deriva egocratica imposta al Paese dall’apoteosi del berlusconismo. Ma del partigiano, del combattente, dell’uomo di resistenza Napolitano non ha mai avuto la vocazione, preferendo dotarsi di un diverso profilo. Ultimo erede della nobile tradizione migliorista, ha sempre privilegiato le larghe intese rispetto ai conflitti epocali: fin dai tempi dell’alternativa democratica, fin dal momento in cui la feroce polemica con Berlinguer sulla necessità di avviare un’interlocuzione a sinistra con il PSI di Carxi lo costrinse a rinunciare alla poltrona di capogruppo dei comunisti a Montecitorio.
            
Dialogo, riformismo, larghe intese. Napolitano è rimasto coerente con sé stesso durante il novennato triste: ha promulgato il Lodo Alfano senza muovere rilievi, malgrado i macroscopici profili di incostituzionalità che ne inficiavano il contenuto; ha ceduto al ricatto berlusconiano sul decreto salva-liste del febbraio 2010 (ennesimo prodotto scellerato di un legislatore sciatto e grossolano); ha offerto al Cavaliere l’onore delle armi delle dimissioni senza crisi di governo, risparmiandogli l’ordalia parlamentare cui sarebbe andato incontro all’indomani dello strappo consumato da Fini a Mirabello, prima che le provvidenziali truppe scilipotiche rispondessero “presente” all’estremo grido di dolore di Verdini e Dell’Utri.
            
Benedetta dall’insediamento del Governo Monti – unità di crisi chiamata a salvare le casse dello Stato dalla minaccia di un default imminente -, la stagione delle larghe intese ha finito col perpetrarsi nella legislatura in corso: il tradimento dei 101 ha di fatto costretto Napolitano a prorogare la sua permanenza al Quirinale, spegnendo al contempo le ultime polemiche conseguenti alla scelta del Presidente di attivare lo scudo del conflitto di attribuzione in confronto della Procura di Palermo per ottenere la distruzione delle intercettazioni relative alle sue conversazioni con Nicola Mancino, a sua volta coinvolto nelle indagini sulla trattativa tra istituzioni e Cosa Nostra. Come era prevedibile, quella riconferma ha avuto un costo: a Bersani non è stato consentito di sfidare in Parlamento il fronte grillino con la sua proposta del governo di cambiamento; si è giunti al Patto del Nazareno ed all’asse Renzi – Berlusconi passando per il sacrificio del Governo Letta, altra vittima illustre di cui è lastricato il sentiero delle riforme condivise.

Il resto è pura cronaca: tracciato il percorso che dovrà portare al superamento dell’impianto costituzionale vigente, l’ultimo dei miglioristi può finalmente occupare la sede a lui assegnata al piano nobile di Palazzo Gustiniani, accompagnato dal plauso unanime delle forze politiche impegnate nella costruzione della Terza Repubblica. Le battute conclusive del suo ultimo discorso alla Nazione lasciano però spazio all’eco di un dubbio, al tarlo di una riflessione scomoda destinata, per forza di cose, a condizionare le analisi di storici e politologi: forse, un partigiano della Costituzione, un rigoroso custode della Carta, un combattente alla Pertini avrebbe saputo limitare il detrimento della qualità della democrazia a cui l’Italia è andata incontro negli ultimi anni, a contenere la deriva egocratica delle istituzioni che ha scandito le tappe principali di quello che rimane un novennato triste.

Carlo Dore jr.

(cagliari.globalist.it) 

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