Mentre
scorrono le ultime battute del discorso con cui Napolitano ha annunciato le sue
dimissioni da Capo dello Stato, si ha l’impressione di ripercorrere le tappe
più importanti del lento declino a cui la Seconda Repubblica è andata incontro
nel corso degli ultimi nove anni: un novennato, quello trascorso da Napolitano
al Quirinale, contraddistinto dal graduale detrimento della qualità democratica
delle istituzioni, dalla cristallizzazione delle larghe intese (consolidatesi anche
in ragione dell’incapacità delle attuali forze di opposizione di abbandonare la
sgangherata ridotta della protesta ad ogni costo, per aderire al progetto del
“governo di cambiamento) come strumento “ordinario” di gestione del potere, dal
radicale superamento del sistema di equilibri delineato dai Costituenti da
parte di una classe politica che individua nella subordinazione al capo
carismatico la propria esclusiva stella polare.
Sì, è stato un novennato triste
quello in cui Napolitano si è trovato – in parte, suo malgrado – a svolgere le
funzioni di regista e di primo attore; un novennato triste, nel quale solo la
presenza sul colle di un rigoroso custode della Carta, di un partigiano della
Costituzione, di un combattente alla Pertini avrebbe potuto porre un freno alla
deriva egocratica imposta al Paese dall’apoteosi del berlusconismo. Ma del
partigiano, del combattente, dell’uomo di resistenza Napolitano non ha mai
avuto la vocazione, preferendo dotarsi di un diverso profilo. Ultimo erede
della nobile tradizione migliorista, ha sempre privilegiato le larghe intese
rispetto ai conflitti epocali: fin dai tempi dell’alternativa democratica, fin
dal momento in cui la feroce polemica con Berlinguer sulla necessità di avviare
un’interlocuzione a sinistra con il PSI di Carxi lo costrinse a rinunciare alla
poltrona di capogruppo dei comunisti a Montecitorio.
Dialogo, riformismo, larghe intese. Napolitano
è rimasto coerente con sé stesso durante il novennato triste: ha promulgato il
Lodo Alfano senza muovere rilievi, malgrado i macroscopici profili di
incostituzionalità che ne inficiavano il contenuto; ha ceduto al ricatto
berlusconiano sul decreto salva-liste del febbraio 2010 (ennesimo prodotto
scellerato di un legislatore sciatto e grossolano); ha offerto al Cavaliere
l’onore delle armi delle dimissioni senza crisi di governo, risparmiandogli
l’ordalia parlamentare cui sarebbe andato incontro all’indomani dello strappo
consumato da Fini a Mirabello, prima che le provvidenziali truppe scilipotiche
rispondessero “presente” all’estremo grido di dolore di Verdini e Dell’Utri.
Benedetta dall’insediamento del
Governo Monti – unità di crisi chiamata a salvare le casse dello Stato dalla
minaccia di un default imminente -, la stagione delle larghe intese ha finito
col perpetrarsi nella legislatura in corso: il tradimento dei 101 ha di fatto
costretto Napolitano a prorogare la sua permanenza al Quirinale, spegnendo al
contempo le ultime polemiche conseguenti alla scelta del Presidente di attivare
lo scudo del conflitto di attribuzione in confronto della Procura di Palermo
per ottenere la distruzione delle intercettazioni relative alle sue
conversazioni con Nicola Mancino, a sua volta coinvolto nelle indagini sulla
trattativa tra istituzioni e Cosa Nostra. Come era prevedibile, quella
riconferma ha avuto un costo: a Bersani non è stato consentito di sfidare in
Parlamento il fronte grillino con la sua proposta del governo di cambiamento;
si è giunti al Patto del Nazareno ed all’asse Renzi – Berlusconi passando per
il sacrificio del Governo Letta, altra vittima illustre di cui è lastricato il
sentiero delle riforme condivise.
Il resto è pura cronaca: tracciato
il percorso che dovrà portare al superamento dell’impianto costituzionale
vigente, l’ultimo dei miglioristi può finalmente occupare la sede a lui
assegnata al piano nobile di Palazzo Gustiniani, accompagnato dal plauso
unanime delle forze politiche impegnate nella costruzione della Terza
Repubblica. Le battute conclusive del suo ultimo discorso alla Nazione lasciano
però spazio all’eco di un dubbio, al tarlo di una riflessione scomoda
destinata, per forza di cose, a condizionare le analisi di storici e
politologi: forse, un partigiano della Costituzione, un rigoroso custode della
Carta, un combattente alla Pertini avrebbe saputo limitare il detrimento della
qualità della democrazia a cui l’Italia è andata incontro negli ultimi anni, a contenere
la deriva egocratica delle istituzioni che ha scandito le tappe principali di
quello che rimane un novennato triste.
Carlo
Dore jr.
(cagliari.globalist.it)
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