Testo della relazione tenuta in occasione dell'iniziativa "Emilio Lussu, combattente per la libertà", svoltasi a Cagliari il 31/1/2015
Parlare
del processo ad Emilio Lussu, ripercorrere gli avvenimenti che precedettero la
sua deportazione a Lipari, significa per me raccontare una storia: una storia
di dolore e di giustizia, di eroismo e di viltà, di oppressione e di
inestinguibile desiderio di libertà. Questa è la storia di un processo: ma
soprattutto è la storia di una vela, e di un “giudice a Cagliari”.
La
nostra storia comincia in una notte dell’autunno del 1926, in una Piazza
Martiri gremita di camicie nere assetate di sangue: del sangue del Cavaliere
dei Rossomori, del sangue di quel fiero soldato che proprio non si rassegnava a
genuflettersi al fascio, del sangue di un uomo che non tremava mai: né di
fronte alle pallottole austriache, né dinanzi all’assalto apportato alla sua
casa da ben tre diverse colonne di manipoli. Un’esplosione, un grido ed il corpo
di un giovane milite sull’asfalto bastarono a disperdere il furore delle
squadre della morte: la piazza, piena fino a quel momento, si svuotò in un
baleno; i fascisti non c’erano più. Ricomparvero solo mentre Lussu veniva
tratto in catene, per reclamare il gesto eroico di un’esecuzione a sangue
freddo.
A
nulla valsero i richiami ai principi basici del diritto costituzionale e del
diritto penale, alla norma che riconosce ad ogni individuo il diritto a
difendersi: il Regime attendeva una condanna esemplare. La attendeva Mussolini,
che si era appena intestato davanti al Mondo intero la responsabilità
dell’assassinio di Matteotti; la attendeva il Conte Cao di San Marco, il
vecchio amico di Lussu che ne aveva tradito la fiducia in cambio di un posto al
sole del fascismo della seconda ora; la attendeva l’avvocato Pazzaglia, altro
militante sardista convertitosi al fascismo dopo avere espresso l’intento di
tagliarsi le vene pur di non indossare fez e orbace. Fu proprio lui a
notificare in carcere al compagno di un tempo il provvedimento di radiazione
dall’ordine forense, ad abbandonarlo ad un destino che sembrava segnato: “io sono
vivo, tu morirai solo”.
Il
Regime attendeva una condanna esemplare, ma c’era un Giudice a Cagliari: in
base al codice di procedura penale allora vigente, la decisione sull’esito
dell’istruzione spettava ad un collegio composto da tre magistrati (la c.d.
Sezione d’accusa della Corte d’Appello). I consiglieri investiti del caso si
manifestarono subito favorevoli al proscioglimento dell’illustre imputato. Le
pressioni del Presidente della Corte d’Appello, insediatosi d’imperio nel
collegio, valsero appena ad attenuare la portata della decisione: non
assoluzione, ma eccesso di legittima difesa. Era comunque uno smacco per il
prestigio di Mussolini, che ancora una volta non era riuscito a prevalere su
quell’avversario emerso dall’inferno delle trincee: intervenne il Ministro
Rocco, intervenne la Corte di Cassazione, per annullare la sentenza e disporre
una nuova istruttoria.
Le
trombe dei fascisti della prima e della seconda ora ripresero temporaneamente
fiato: questa volta non potevano esserci sorprese, questa volta il rinvio a
giudizio appariva scontato, e quel maledetto ardito sarebbe stato processato
davanti al Tribunale di Chieti, da quegli stessi magistrati che avevano
consegnato i loro nomi alla storia stringendo la mano insanguinata dei sicari
di Matteotti. Le trombe dei fascisti ripresero fiato, ma Cagliari non era
Chieti: a Cagliari c’era ancora un giudice capace di anteporre le ragioni del
diritto all’arroganza del potere.
Arcangelo
Marras, Decio Lobina, Antonio Manca Casu (i componenti della nuova Sezione
d’accusa) si riunirono per scrivere la sentenza di sabato pomeriggio, nel
silenzio del Tribunale reso deserto dalla giornata prefestiva. Quando, il
lunedì seguente, il Regime tornò alla sua normale attività, la sentenza era
cristallizzata dalla forza del giudicato: assoluzione con formula piena,
l’omicidio del milite (la cui famiglia aveva dignitosamente rinunciato a
costituirsi parte civile) era giustificato dalla scriminante della legittima
difesa.
Il
fascismo consumò la sua vendetta disponendo la deportazione di Lussu a Lipari:
innocente, e per questo nemico dello Stato. Ma mentre il Cavaliere dei
Rossomori veniva tradotto al porto, accompagnato dal mesto saluto di una città
in stato d’assedio, ecco quella vela, attraversare veloce il golfo di Cagliari.
Ecco quella vela, ed ecco quel grido, la cui intensità non è stata scalfita
dall’incedere del tempo: “Viva Lussu! Viva la Sardegna!”.
La
forza del diritto prevale sull’arroganza del potere, un inno alla libertà
spezza il ferro di una catena: la storia del processo a Lussu è tutta qui. A
distanza di quasi un secolo dai drammatici eventi che ho provato a raccontare,
non ci è dato sapere a quale destino andò incontro il coraggioso timoniere di
quella barca, né quale sorte attese i tre componenti della Sezione d’accusa
della corte cagliaritana, che mi piace immaginare sorridenti, mentre depositano
la loro sentenza in cancelleria. Sappiamo però che la storia del processo a
Lussu finisce in qualche modo col saldarsi alla stretta attualità: in un’epoca
in cui alcuni parlamentari sono arrivati ad occupare le scalinate di un
Tribunale, paragonando i magistrati ai sicari delle BR, il ricordo di quel
Giudice a Cagliari ribadisce la necessità di far prevalere sempre e comunque le
ragioni del diritto sulle contingenti esigenze dei depositari del potere
politico, di individuare ancora nel valore dell’autonomia e dell’indipendenza
della Magistratura una vela bianca capace di resistere ai marosi di una
politica debole. Debole nel riformare, ma ancor più debole nell’autoriformarsi.
Carlo
Dore jr.
(cagliari.globalist.it)
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