“Bersani la faccia finita
con la storia dei nominati della riforma – Renzi, lui che ha nominato l’on. Di
Gioia”, tuona attraverso la sua pagina Facebook l’ex parlamentare sassarese
Guido Melis, in un post ripreso per Cagliari.globalist da Tino Tellini.
Bersani, il grande nominatore di ieri, oggi combatte i nominati di Renzi; la
metamorfosi di Bersani, da grand commis
delle liste bloccate a pasdaràn delle
preferenze a ogni costo: cosa vuole, questo Bersani? Taccia, e chieda scusa, in
nome della coerenza.
Emendate dai toni
ultimativi a cui fanno costantemente ricorso i fautori della “svolta buona”, le
riflessioni di Melis e Tellini risultano però inficiate da un duplice difetto
di impostazione, da una sorta di doppio bug che li conduce a declinare una
costruzione lontana anni-luce dalla realtà dei fatti. Un duplice errore di
impostazione, dunque, che riguarda sia le posizioni assunte dal PD di Bersani
sul problema del rapporto tra elettori ed eletti, sia l’effettiva portata della
critica mossa dal leader della minoranza dem ai progetti di riforma
istituzionale al momento all’esame del Parlamento.
In ordine al tema del
rapporto tra elettori ed eletti, Melis e Tellini non considerano che proprio l’esigenza di superare il sistema di
liste bloccate imposto dal porcellum
- e di restituire, seppure in parte, ai
cittadini il diritto di concorrere alla selezione dei parlamentari – ha
costituito la ragione ispiratrice della scelta di utilizzare le primarie quale
criterio principale per la formazione delle liste in occasione delle politiche
del 2013 (primarie a cui, per inciso, lo stesso Guido Melis ebbe modo di
partecipare, ottenendo oltre duemila voti nel collegio di Sassari), e di
riservare al Segretario la determinazione di un numero minimo delle candidature
proposte nei vari collegi (si tratta del c.d. “listino”, nel quale risultava
inserito l’on. Di Gioia).
Lungi dall’atteggiarsi a
“grande nominatore”, Bersani ha pagato in prima persona i limiti che
caratterizzano le primarie come strumento di selezione della classe dirigente,
rimanendo vittima del perverso gioco di personalismi, ambizioni individuali e
veti incrociati alimentatosi in seno ai gruppi parlamentari democratici, fino a
deflagrare nel “fuoco amico” della notte dei 101. Non grande nominatore, ma
democratico autentico; non grand commis
delle liste bloccate, ma prima vittima della debolezza strutturale che induce i
partiti di oggi a demandare ad una base elettorale fluttuante e magmatica la
selezione della propria classe dirigente.
Venendo poi al secondo
difetto di impostazione dianzi richiamato, le contestazioni dell’ex segretario
democratico alle riforme imposte dal Governo Renzi non si appuntano
esclusivamente sulla presenza dei “capi-lista bloccati”, ma abbracciano
l’intero assetto istituzionale che può derivare dall’approvazione del combinato
disposto Italicum –ddl Boschi, e che l’ala sinistra del PD non ha, fino ad ora,
contrastato con l’adeguata incisività. Vertono, in altre parole, sulla presenza
di un’unica Camera composta principalmente da nominati, e sulla corrispondente
degradazione del Senato alla marginale condizione di “dopo-lavoro” per sindaci
e consiglieri regionali; sull’asserita intangibilità del Patto del Nazareno,
accordo inconcepibile tra forze politiche prive di un substrato comune di
valori di riferimento; su un’idea di Costituzione intesa come atto di forza
opposto dall’attuale maggioranza di governo ai rilievi che provengono dalla
minoranza interna; sulla potenziale metamorfosi del segretario del partito di maggioranza
in dominus incontrastato delle
istituzioni, sulla pericolosa transizione dalla democrazia parlamentare ad una
sorta di principato modello 2.0.
Cosa vuole allora, questo
Bersani? Perché non china la testa e tace, in nome della coerenza?
Bersani vuole solo
riaffermare l’idea di democrazia che ha sempre sostenuto, vuole continuare a battersi
per un modello di partito inteso come strumento di partecipazione dei cittadini
alla vita politica del Paese e non come cassa di risonanza delle decisioni del
Capo. Una posizione in linea con la storia personale di un politico dimostratosi
capace di anteporre la coerenza con i propri principi alle legittime ambizioni
di leadership; una posizione per la quale Bersani non è in alcun modo tenuto a
scusarsi: né davanti a Guido Melis, né davanti al Paese.
Carlo Dore jr.
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