lunedì, ottobre 14, 2013

IL PD SARDO E IL “CODICE ETICO FLESSIBILE”: UNA PROPOSTA SULL’INCANDIDABILITA’

Le notizie relative alle indagini sulla gestione dei fondi in dotazione ai gruppi del Consiglio regionale – indagini che, come noto, coinvolgono alcuni esponenti del PD della Sardegna – hanno riaperto, all’interno del centro-sinistra, il dibattito in ordine all’attualità della questione morale: mentre alcuni militanti affermano che la semplice esistenza di un’indagine non può incidere sulle scelte dei partiti in ordine alla candidature per le ormai prossime elezioni, altri esponenti della coalizione,  invocando “liste pulite”, segnalano la necessità di salvaguardare quella “diversità etica” che, dai tempi di Berlinguer, caratterizza il patrimonio culturale dei progressisti italiani.

A prescindere dalle specificità della vicenda appena richiamata (gli indagati hanno infatti assicurato di essere in grado di dimostrare “nel procedimento” la correttezza del loro operato), il contrasto di opinioni in atto all’interno del centro-sinistra sardo rappresenta l’occasione per rielaborare alcune considerazioni di carattere generale sul controverso rapporto tra politica e giustizia, tra necessaria tutela delle garanzie degli indagati e salvaguardia della legittima aspirazione degli elettori ad essere rappresentati da una classe dirigente al di sopra di ogni sospetto.

Preliminarmente, occorre osservare come l’apertura di un procedimento penale e l’eventuale trasmissione di un’informazione di garanzia non possono di per sé costituire una ragione sufficiente per indurre un partito ad escludere automaticamente la candidatura di un inquisito, dato che il PM è obbligato a procedere con le indagini per valutare la fondatezza di ogni notizia di reato, e dato che l’informazione di garanzia costituisce il presupposto indispensabile per il compimento dei c.d. atti garantiti (interrogatorio, ispezione, confronto). Ciò chiarito, non si può però non rilevare come il codice etico “flessibile” adottato dal PD nel 2007 – in base al quale le valutazioni sulla candidabilità di una persona indagata o imputata variano a seconda della natura del reato contestato – ha già dimostrato, tanto a livello locale quanto a livello nazionale, la propria inidoneità ad assecondare la richiesta (troppo spesso ignorata) di rigore nella selezione della classe dirigente avanzata da iscritti e militanti in confronto delle varie forze politiche dell’area democratica. 

Ecco allora che proprio la necessità di individuare il corretto punto di equilibrio tra le esigenze di autonomia della politica rispetto all’azione della magistratura e le istanze di moralità che pervadono l’elettorato mi induce a rinnovare una proposta più volte avanzata nel corso degli ultimi anni: se infatti, per le ragioni sopra esposte, l’esistenza di un’indagine non può giustificare l’automatica esclusione di un candidato dalle liste, il discorso muta completamente quando, nel disporre il rinvio a giudizio, il GUP attesta l’esistenza di un impianto accusatorio tanto solido da determinare l’apertura del dibattimento, ovvero quando, per i procedimenti c.d. a citazione diretta (non caratterizzati cioè dal filtro dell’udienza preliminare), viene pronunciata la condanna di primo grado. 

Proprio l’esistenza di un provvedimento (di rinvio a giudizio, o di condanna in primo grado) pronunciato da un giudice terzo e imparziale può permettere l’individuazione di quel punto di equilibrio a cui si è appena fatto cenno: con l’eccezione dei reati c.d. d’opinione, i partiti del centro-sinistra potrebbero cioè impegnarsi a non inserire nelle proprie liste candidati rinviati a giudizio, ovvero - per i procedimenti a citazione diretta - condannati in primo grado  per un delitto punibile con pena superiore ai due anni, e ad imporre ai propri candidati l’obbligo morale delle dimissioni da ogni carica istituzionale in caso di rinvio a giudizio o condanna per i medesimi delitti intervenuta dopo l’elezione. 

La soluzione appena prospettata sarebbe, da un lato, utile a mettere i partiti al riparo dal logoramento conseguente al gioco di ombre, sospetti e veti incrociati che sistematicamente fa da sfondo alla candidatura di persone sottoposte a procedimento penale, e d’altro lato contribuirebbe a sterilizzare gli argomenti di quei movimenti a dimensione esclusivamente protestataria, che proprio nel diffuso senso di sfiducia del cittadini nei confronti delle istituzioni trovano la loro linfa vitale.
Carlo Dore jr.

(cagliari.globalist.it)

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