Occhetto
e quella svolta decisa in solitudine; Bertinotti e il poeta morente; D’Alema,
il leader incompiuto; Bersani e la notte dei 101. In un serrato
libro-intervista ai protagonisti dei passaggi principali della storia recente
della sinistra italiana, due giornalisti del calibro di Silvia Truzzi e Antonio
Padellaro ripercorrono i momenti più dolorosi della lunga diaspora vissuta
dagli eredi di Berlinguer, dalla Bolognina fino al Patto del Nazareno.
Vittorie,
sconfitte, sogni, rimpianti, delusioni, verità rivelate e verità ristabilite si
alternano nella ricostruzione degli intervistati, nel tentativo di dare una
risposta convincente alle domande dei militanti di quel che resta dell’area
democratica: quando ha cominciato a morire la sinistra? Chi può considerarsi
responsabile della sistematica dispersione del patrimonio di idee, valori e
consenso che sosteneva il principale Partito Comunista d’Occidente? E
soprattutto, c’è ancora spazio per una sinistra nel nostro Paese? Domande che
impongono una valutazione a tutto tondo sull’intera parabola della Seconda
Repubblica, e che costituiscono lo spunto per alcune riflessioni al veleno.
La
svolta della Bolognina, momento iniziale di questa fase di dispersione, assume
un significato del tutto peculiare, se inquadrata nel più ampio contesto
cronologico che va dalle parole affidate da Berlinguer a Scalfari all’inizio di
Tangentopoli. Alla Bolognina la sinistra inizia a morire, ma non per la scelta
di avviare il percorso (nei fatti già intrapreso) dall’eurocomunismo verso il
socialismo democratico: inizia a morire nel momento in cui – ignorando la
lezione del Segretario sassarese, che della degenerazione dei partiti a
macchine di potere e clientela, al servizio di boss e sotto-boss , aveva per
primo intuito il livello di gravità – si è fatta trovare impreparata di fronte
alla crisi dei grandi partiti del ‘900, rinunciando alla propria identità, ai
propri capisaldi ideologici, perfino al proprio linguaggio nel tentativo
impossibile di contrapporsi all’ondata berlusconiana replicandone per certi
aspetti il modello.
Un
errore fatale, destinato a condizionare la stagione di grandi speranze che
aveva accompagnato la marcia dell’Ulivo verso il governo del Paese: una marcia
azzoppata dalla strategia bertinottiana volta a garantire a Rifondazione la
nicchia della sinsitra movimentista, anche a costo di rinunciare all’ambizione
di rafforzare la sinistra di governo; condizionata dalle contraddizioni che si
annidavano nella strategia della Bicamerale (poi paradossalmente riabilitata
tanto dai Saggi di Lorenzago quanto dal ddl Renzi – Boschi) e dalla mancata
approvazione della legge sul conflitto di interessi, colpevolmente sacrificata
sull’altare della frettolosa e pasticciata riforma del Titolo V della Carta
fondamentale; ma alla lunga avvelenata soprattutto dalla pretesa di obliterare
il ruolo dei partiti – nella loro tradizionale dimensione di strutture preposte
alla formazione della classe dirigente ed alla creazione di un canale di
comunicazione stabile tra istituzioni e società - in favore di diverse, e pericolosamente
meteoriche, forme di partecipazione.
I
comitati e i “partiti senza tessere”, il Lingotto e il “non sono mai stato
comunista”, la frattura col mondo del lavoro e il “falco” Calearo in
Parlamento: i partiti perdono rilievo, ridotti a macchine di potere e di
clientela, a strumenti di consenso per boss e sottoboss: Berlinguer aveva visto
giusto, Berlinguer aveva visto lontano. Bersani e il suo “partito da
combattimento” rappresentano l’estremo tentativo di invertire la rotta che
conduceva la sinistra verso la rottamazione, un tentativo destinato a esaurirsi
nella Notte dei 101, tra la leggerezza di gruppi parlamentari più sensibili al
sentiment di Twitter che alla strategie politiche di ampio respiro e le
ambizioni di una classe dirigente già proiettata verso il Partito della
Nazione. Il resto è storia recente: Matteo Renzi e il “gettone nell’IPhone”, il
Jobs act e la Buona scuola, l’eutanasia della sinistra consumata a reti
unificate, tra le grida della folla che invocava la cacciata di quanti,
ravvisando l’incombere di una destra violenta, oscurantista e regressiva,
opponevano un flebile: “fermatevi!” alla Road to perdition della svolta buona.
Fino al referendum costituzionale, fino alla scomparsa della sinistra dal
palcoscenico principale della politica italiana.
Nel
riporre il volume di Truzzi e Padellaro nello scaffale della libreria, nella
mente del lettore rimane spazio solo per l’ultima domanda che i due autori
propongono ai loro protagonisti: la sinistra è morta per davvero, o c’è ancora
spazio per una sinistra in Italia? Risponde Bersani, con il sano realismo che
ne caratterizza gli argomenti: riprendete il rapporto con chi se n’è andato,
non lasciate nessuno indietro. Sì, forse la sinistra non è ancora morta; forse
c’è ancora spazio per una sinistra in Italia: a condizione che la sinistra
sappia procedere ad un’analisi critica del proprio passato per offrire una
lettura del presente che non sia adulterata dalla semplice esigenza di una
classe dirigente asfittica, in crisi di consenso e di identità, di conservare,
a livello più o meno alto, privilegi e rendite di posizione. Condizione
indispensabile per ricostruire la connessione sentimentale con chi è rimasto
indietro, condizione indispensabile per non relegare la sinistra alla triste
dimensione del “c’era una volta…”
Carlo Dore jr.
(articolo pubblicato su www.articolo1mdp.it)
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