venerdì, marzo 24, 2006


Le strategie degli Usa e la politica italiana
SALVATE IL SOLDATO SILVIO


Gli annunci resi dal Dipartimento di Stato americano in ordine ai rischi a cui sarebbero esposti i cittadini statunitensi che si trovano nel nostro Paese a causa delle manifestazioni estremiste che potrebbero verificarsi nei giorni precedenti il voto del 9 aprile hanno contribuito a rendere ancora più incandescenti questi ultimi giorni di campagna elettorale. Tali comunicazioni hanno infatti costituito il presupposto in base al quale il centro-destra ha impostato un nuovo attacco nei confronti dell’Unione, a cui è stata mossa l’accusa di voler “aprire le porte di Montecitorio al capo degli squadristi che fanno uso della violenza per impedire alle forze moderate di comunicare ai cittadini i principi contenuti nel programma a cui esse fanno riferimento”.
Per quanto i funzionari dello stesso Dipartimento di Stato si siano affrettati a precisare che le indicazioni da loro impartite non devono costituire oggetto di interpretazioni politicamente orientate, siffatte indicazioni costituiscono, a mio avviso, lo spunto per elaborare alcune riflessioni potenzialmente molto rilevanti nella prospettiva delle ormai prossime elezioni.
Preliminarmente, è doveroso rilevare come il clima di tensione che al momento caratterizza il confronto politico non risulta in alcun modo ricollegabile alla condotta tenuta fino ad ora dai leaders del centro-sinistra, dei quali può al limite essere contestata la scelta di avere rinunciato a segnalare con l’incisività necessaria per scuotere il corpo elettorale le macroscopiche storture e le incredibili contraddizioni presenti in tutti i deliranti monologhi cui il Cavaliere di Arcore è ormai solito procedere.
Ad una campagna elettorale basata esclusivamente sull’individuazione dei problemi del Paese e delle soluzioni utili per superarli, il soldato Berlusconi ha risposto partendo all’attacco di tutti i pretesi poteri forti, sfruttando ogni uscita pubblica (identificabile tanto nella partita delle Vecchie Glorie del Milan quanto nella convention degli industriali) per scagliare roventi strali verso ogni componente della società che osi contrapporsi alla sua marcia.
Tanto le offensive realizzate in confronto di magistratura, giornali, imprenditori e televisioni quanto le incessanti denunce relative ai pericoli che l’ascesa al potere dei comunisti determinerebbe per la stabilità della democrazia non rappresentano però solamente le reazioni scomposte di un leader ormai privo di lucidità, ma i momenti di attuazione di un piano scientificamente elaborato, diretto a celare sotto il frastuono di una rissa da talk show i fallimenti riportati dal Polo nei cinque anni di governo.
Tuttavia, il profilo inquietante delle vicende in commento non è costituito dalle ultime evoluzioni di un caimano orfano dell’antico mordente, oppresso dal terrore per l’imminente sconfitta e dal livore per essere da anni oggetto del ludibrio di gran parte della comunità internazionale, ma dalla (non nuova) ingerenza degli States nelle vicende politiche italiane.
Di fronte alla prospettiva di perdere l’appoggio di un’altra importante nazione europea per le sue scellerate iniziative militari, appare evidente il tentativo di Bush (forse memore delle strategie attuate nel 1976 da Harry Kissinger per frenare l’ascesa del PCI verso Palzzo Chigi) di salvare il fedele scudiero dal tracollo cui sembra irreversibilmente destinato. La linea di azione individuata da Gorge W. per sostenere la campagna elettorale del centro-destra giustifica tanto la stucchevole performance offerta dal Cavaliere di fronte ai – pochi in verità- membri del Congresso di Washington (rimasti del tutto increduli di fronte alle dichiarazioni di gratitudine rese all’America proprio dal più importante alleato dei discendenti di quelle forze politiche che con maggiore vigore contrastarono l’azione degli Usa durante la Seconda Guerra Mondiale), quanto i comunicati a cui si è precedentemente fatto riferimento, perfettamente idonei ad alimentare il timore dell’esistenza di un nuovo estremismo di sinistra obiettivamente non percepibile attraverso una serena analisi degli equilibri che attualmente governano la nostra società
Le valutazioni appena compiute impongono un’amara riflessione finale: premesso che la politica estera condotta dall’attuale esecutivo tra ville abusive e cantautori improvvisati, bandane variopinte e gaffes imbarazzanti, è stata caratterizzata da un costante asservimento alle scelte assunte dalla Withe House (asservimento ora ripagato attraverso il sostegno elettorale offero al medesimo esecutivo nelle forme che ho tentato di descrivere), sembra potersi affermare che uno dei principali compiti che dovrà essere affrontato dal governo che si insedierà all’indomani della competizione elettorale sarà proprio quello di ricostruire l’immagine internazionale del nostro Paese, restituendo all’Italia quell’autonomia di valutazione, quel prestigio e quell’autorevolezza a cui sembra avere rinunciato negli ultimi cinque anni.

Carlo Dore jr.

1 commento:

Massimo Marini ha detto...

D'Alema e la questione dell'Afghanistan

Rispondendo ad alcune indiscrezioni circa l'eventuale disimpegno del contingente italiano anche dal fronte afghano trapelate in seguito all'annuncio del programma per il ritiro delle truppe italiane dall'Iraq, il neo-ministro agli Affari Esteri Massimo D'Alema ha voluto sottolineare e precisare che "sebbene il governo Prodi voglia marcare una discontinuità importante rispetto al precedente esecutivo a proposito dell'Iraq, ciò non autorizza a pensare che l'Italia stia per modificare il suo atteggiamento generale verso le missioni di pace o l'impegno per la difesa dei diritti umani e per la gestione delle crisi nel resto del mondo". Ad una prima analisi quanto affermato dal Ministro D'Alema non fa una piega, in quanto è indubbio che la situazione in Afghanistan è profondamente diversa da quella irachena, soprattutto (fattore non trascurabile agli occhi dell'opinione pubblica - specie progressista - italiana) dal punto di vista formale. L'intervento armato in Afghanistan è legittimato da una risoluzione ONU (la n. 1386) emanata all'indomani dell'attacco alle Twin Towers, rispetto all'oggettivo attacco unilaterale avvenuto in Iraq e solo successivamente in qualche modo legittimato da una risoluzione delle Nazioni Unite. In Afghanistan è impegnata tutta la Comunità Internazionale (Germania, Francia, Spagna, oltre agli USA e al Regno Unito) e formalmente si è già entrati in quella fase post-bellica di ricostruzione, nella quale è facile gioco dei Parlamenti nazionali far passare per "supporto alla nuova infrastrutturazione" la presenza militare dei propri contingenti in terra afgana. La realtà dei fatti purtoppo, e soprattutto in regime di guerra, corrisponde di rado alla "formalità" delle risoluzioni. Dopo un 2004 relativamente tranquillo (700 morti circa), il 2005 ha registrato una drammatica escalation dei combattimenti con oltre 2 mila morti. Tale inasprimento dei conflitti ha causato un netto "irrobustimento" delle regole di ingaggio degli uomini NATO nei confronti dei locali, proprio alla vigilia della "fase 3" di espansione della missione nel turbolento sud del Paese, che di fatto muta la natura della missione da "supporto alla ricostruzione" a nuova "missione di guerra". Ma perché la situazione sta degenerando in questo modo? Prova a dare una risposta Enrico Piovesana, giornalista specializzato in questioni che riguardano l'Asia Centrale e il Caucaso, e collaboratore di PeaceReporter. Secondo Piovesana, è la stessa presenza delle truppe internazionali che crea instabilità. La popolazione vive in uno stato di frustrazione e rabbia generata dalla constatazione che le condizioni di vita, con l'avvento del "governo democratico" di Karzai, non sono migliorate affatto. La ricostruzione così enfaticamente vantata in ogni occasione dalla Comunità Internazionale, è praticamente inesistente, e nelle migliori delle ipotesi, avanza a favore degli interessi delle aziende appaltatrici statunitensi e dei corrotti politici del governo Karzai. Lo stesso esecutivo è visto dalla popolazione come un organismo fantoccio, in mano agli "stranieri", lontanissimo dai bisogni reali e quotidiani della gente. Se a queste condizioni disperate si sommano i massacri di innocenti provocati dai bombardamenti, le violenze e gli abusi delle truppe "straniere" nel corso dei rastrellamenti dei villaggi, le torture nelle carceri militari di Bagram e Kandahar, il generale atteggiamento sprezzante e aggressivo dei militari nei confronti della popolazione, risulta più semplice comprendere perché da un banale incidente stradale si sia scatenata una guerriglia come quella alla quale abbiamo assistito qualche giorno fa nelle strade di Kabul. E a nulla vale la teoria secondo la quale i protagonisti di questi sopprusi siano solo ed esclusivamente gli americani. Se pure così fosse, per la stragrande maggioranza degli afgani "non esiste alcuna differenza tra marines e alpino, e le colpe dei primi ricadono in maniera del tutto automatica sui secondi". Per un "afgano medio" - che conosce a mala pena la geografia della sua regione - italiani, spagnoli, tedeschi, americani, sono tutti la stessa cosa: stranieri. Stranieri causa delle sofferenze, delle ristrettezze, della fame, che hanno seguito isolamento, dittatura, violenza del governo talebano. E' arrivata la libertà e la democrazia però, sostengono i fautori dell'interventismo, insieme alle elezioni e ai diritti per le donne. Vero, ma se questa libertà sulla carta viene costantemente violata dai Signori dell Guerra locali che di fatto "amministrano" tutto il territorio afgano - ad eccezione di Kabul, unico centro dove il governo ufficiale riesce a tenere una sorta di sovranità - è facile comprendere come i talebani, fuggiti ma mai sconfitti, siano tornati abbastanza agevolemente dal Pakistan, e abbiano ripreso il controllo di diverse aree extraurbane. Insomma, secondo la teoria di Piovesana, sposata in toto da PdCI, Verdi, Rifondazione e (anche se in modo più sommesso) dalla sinistra DS, è arrivato il momento di rivalutare alla radice l'opportunità della presenza militare di un contingente italiano in Afghanistan. Secondo la sinistra, il governo italiano con in testa il suo Ministro per gli Affari Esteri Massimo D'Alema, dovrebbe farsi promotore presso la Comunità Internazionale, di una nuova fase della presenza ONU in Afghanistan, mirata esclusivamente alla concreta realizzazione delle infrastrutture necessarie quali: ospedali, ponti e strade, scuole, pozzi per l'approvvigionamento idrico - promuovendo un reindirizzamento delle ingenti risorse economiche (solo l'Italia nel 2006 spenderà circa 166milioni di Euro) verso questo tipo di destinazione. Solo con una rapida normalizzazione (a dire il vero in Afghanistan del tutto sconosciuta) è possibile estirpare l'humus sul quale l'arroganza dei Signori della Guerra e la Criminalità organizzata basano la loro egemonia. Riuscirà stavolta il Ministro D'Alema a fare, oltreché a dire, qualcosa di Sinistra?