domenica, novembre 05, 2006


PARTITO DEMOCRATICO E ALTERNATIVE DI SINISTRA
di
Carlo Dore jr.

SOMMARIO: 1. L’assise di Orvieto: le ragioni della trasformazione; 2. La semplificazione della politica: il Partito Democratico non è il partito unico del centro-sinistra; 3. Romano Prodi: il leader di un partito o un leader al di sopra dei partiti?; 4. Il problema della collocazione: possiamo morire democristiani?; 5. Una forza unitaria della sinistra italiana come alternativa al Partito Democratico



1. L’assise di Orvieto: le ragioni della trasformazione

All’indomani della sofferta vittoria riportata alle elezioni politiche del 9 e del 10 aprile, il processo di costituzione del nuovo soggetto politico del centro-sinistra (già delineato nella fase pre-elettorale attraverso la formazione di liste unitarie di candidati espressione della Margherita e dei DS) sembra aver trovato il suo effettivo avviamento.
L’assise degli eletti dell’Ulivo recentemente convocata in quel di Orvieto è stata senz’altro utile per ribadire le ragioni di fondo che stanno alla base di questo processo di trasformazione, ma non per gettare un fascio di luce sulle tante zone d’ombra che contraddistinguono siffatto progetto né per impedire le lacerazioni che l’attuazione del medesimo determinerà in seno alla sinistra italiana.
Le posizioni dei sostenitori della “linea unitaria” (espresse da Walter Veltroni con la passione e l’intelligenza che caratterizzano ogni suo intervento) possono essere così riassunte: premesso che la scelta iniziale –risalente all’ormai lontano 1995- di dare vita ad un’alleanza riformista trova la sua naturale evoluzione nella realizzazione di un partito unico, in grado di rappresentare tutte le componenti del progressiste presenti nel Paese, la creazione di una simile forza politica determinerebbe da un lato il rafforzamento della leadership di Romano Prodi (finalmente identificabile come il capo di un partito in grado di raccogliere almeno il 35% dei consensi complessivi), e d’altro lato garantirebbe più stabilità all’etreogenea e litigiosa maggioranza che sostiene il Governo.



2. La semplificazione della politica: il Partito Democratico non è il partito unico del centro-sinistra.

Ricostruite in questi termini le argomentazioni di coloro i quali aderiscono alla linea programmatica imposta da Rutelli e Fassino, non si può non osservare come tali argomentazioni destino molteplici ragioni di perplessità. In primo luogo, occorre superare il macroscopico equivoco alimentato ogni giorno (più o meno consapevolmente) dai tanti illuminati riformisti che oggi affollano la bouvette di Montecitorio: il Partito Democratico, nella sua configurazione attuale, non può essere presentato come una sorta di labour party all’italiana, come un punto di riferimento comune per quanti rifiutano di conformarsi all’arroganza bieca e al servile pronismo su cui è tuttora edificata la Casa delle Libertà. Il PD non rappresenta infatti il tanto vagheggiato partito unico del centro-sinistra, ma più semplicemente l’aggregazione delle (componenti maggioritarie presenti nell’ambito) delle principali forze che governano la coalizione.
Dall’accettazione di questo semplice postulato, derivano una serie di considerazioni ulteriori, idonee sia a confutare le costruzioni sopra riportate, sia a mettere ancora una volta in rilievo l’esistenza, all’interno del progetto di unificazione, di quell’insieme di lati oscuri a cui si è in precedenza fatto cenno. In occasione delle ultime elezioni politiche, la lista dell’Ulivo ha infatti conseguito un quoziente elettorale approssimativamente pari al 32% dei voti, potendo contare anche sull’apporto di quegli elettori che, indipendentemente dalle identità partitiche, hanno voluto sostenere Prodi nel confronto diretto col Caimano.
Premesso che un simile risultato è sostanzialmente lontano dalle aspettative cullate dal gruppo dirigente ulivista, la qualificazione del PD come centro catalizzatore del 45% dei consensi rappresenta solo un’altra pagina del voluminoso libro dei sogni della politica italiana, considerato il dissenso dell’ala radicale dei DS e le perplessità di alcune frange della Margherita a confluire in un partito caratterizzato da una forte componente postcomunista.
Tutto questo implica che la creazione del nuovo soggetto unitario non solo non contribuirà alla “semplificazione” dei rapporti di forza all’interno della maggioranza di governo, ma paradossalmente finirà con l’alimentare le già descritte ragioni di eterogeneità che contraddistinguono un’alleanza dimostratasi, in questi primi mesi della legislatura, già di per sé divisa ai limiti dell’implosione.
3. Romano Prodi: il leader di un partito o un leader al di sopra dei partiti?

In un simile contesto, la leadership di Romano Prodi appare per forza di cose tanto debole da rendere la sua posizione equiparabile a quella di uno dei tanti Presidenti del Consiglio alternatisi durante l’epoca del CAF, durante la quale la sopravvivenza del Governo era di fatto rimessa al mero arbitrio dei segretari dei tanti partiti che ne sostenevano l’azione in Parlamento. Le ragioni dell’instabilità del Premier vengono generalmente ricondotte alla “mancanza di un partito alle sue spalle”, con la conseguenza che il Partito Democratico può essere individuato come il punto di appoggio in grado di conferire al Professore la credibilità politica necessaria per affrontare in maniera efficace i tanti problemi che oggi attanagliano il Paese.
Posto infatti che l’Unione continua ad essere soggetta alla pregiudiziale che preclude alla principale forza della coalizione di indicare un proprio esponente quale leader della medesima, la condizione di Prodi, dopo le primarie dell’ottobre del 2005, dovrebbe trascendere i singoli partiti, avendo il consenso dei militanti elevato l’attuale inquilino di Palazzo Chigi al ruolo di capo dell’intero schieramento progressista.
Forte di una legittimazione popolare senza precedenti, l’attuale capo dell’Esecutivo ha avuto la possibilità di predisporre un programma di governo che doveva essere coraggioso, intelligibile e preciso a tal punto da “rimettere in moto l’Italia” dopo i disastri dell’era berlusconiana. Tuttavia, il Professore forse non è riuscito ad esercitare la legittimazione di cui era investito con la necessaria incisività, impostando una campagna elettorale ispirata ad un inspiegabile basso profilo al cospetto di un avversario prematuramente considerato inoffensivo.
Le troppe incertezze relative alle scelte di politica economica hanno costituito l’ulteriore causa che ha condotto alla folle notte del 10 aprile, in cui l’Unione ha rischiato di perdere un’elezione che in base ai sondaggi poteva considerarsi già vinta. Come noto, dalle urne è uscita una maggioranza parlamentare così esigua che il Presidente del Consiglio risulta quotidianamente al costante ricatto dei partiti minori, i cui voti risultano evidentemente determinanti per la conservazione del vincolo fiduciario.
Tutto ciò premesso, sembra difficile sostenere che il Partito Democratico costituisca lo strumento idoneo per rafforzare l’immagine di Prodi all’interno della coalizione: qualora infatti si ponesse a capo di una forza direttamente coinvolta nelle lotte di potere al momento in atto in seno all’Unione, egli paradossalmente rischierebbe di perdere quella superiore legittimazione a cui si è in precedenza fatto riferimento, e la cui sussistenza ha finora impedito ai suoi riottosi alleati di metterne in discussione il ruolo.

4. Il problema della collocazione: possiamo morire democristiani?

Tuttavia, i problemi presi in esame fino a questo momento assumono un rilievo marginale rispetto alle grandi questioni inerenti alla collocazione ideologica del nuovo partito ed all’identità che questo dovrà assumere. Prendendo vita dalla mera fusione di due realtà caratterizzate da una diversa cultura, da una diversa storia, da diversi valori e da diversi principi etici e morali, il PD nasce come un movimento bicefalo frutto di una lenta e macchinosa strategia di compromesso, finora ispirata dalla logica dalemiana secondo cui “non si può costringere i democristiani a morire socialisti”.
L’attuazione di una simile linea di ragionamento impone però ai dirigenti diessini di qualificare con chiarezza i rapporti che il nuovo partito dovrà intrattenere con il PSE, rapporti finora delineati attraverso perifrasi nebulose quali sono i continui riferimenti a un “costante dialogo” o a un proficuo confronto” con la principale forza del socialismo europeo che quotidianamente caratterizzano le dichiarazioni rese alla stampa dallo stato maggiore ulivista.
Di fronte ad un simile status quo, sorge spontanea la necessità di riproporre quegli interrogativi che da troppo tempo tormentano le coscienze dei militanti della sinistra italiana: se non è possibile costringere i democristiani a morire socialisti, è eticamente corretto imporre agli eredi di Gramsci e Berlinguer di rinunciare una volta per sempre alla loro identità, confluendo in un movimento ideologicamente comparabile alla corrente morotea che governava la DC negli anni del compromesso storico? E’ lecito, in altri termini, costringere le migliaia di elettori che continuano orgogliosamente ad affermare il loro “essere di sinistra” a morire democristiani?
Per offrire una risposta convincente ai quesiti appena formulati, può essere utile, a mio avviso, ripercorrere alcuni dei momenti centrali della storia politica italiana degli ultimi quindici anni. Da un sintetico esame di tali avvenimenti, emerge come la Quercia abbia incessantemente cercato di conseguire una piena legittimazione democratica anche agli occhi di quella che può genericamente definirsi la classe borghese, legittimazione peraltro già ampiamente conquistata attraverso la Guerra di Liberazione e le grandi battaglie civili compiute negli anni ’70 e ulteriormente consolidata attraverso il sostegno fornito ai governi guidati da Amato e Ciampi nella delicatissima fase di transizione che caratterizzo l’inizio degli anni ’90.
La strategia elaborata nei piani alti di Botteghe Oscure (inizialmente diretta ad individuare, in ossequio alla migliore tradizione della politica berlingueriana, una serie di punti di convergenza con i soggetti espressione dell’area cattolica, liberaldemocratica e riformista) ha però subito una serie di degenerazioni, in forza delle quali i DS sono giunti a mettere in discussione la loro natura socialista per assumere essi stessi una connotazione riformista e liberaldemocratica palesemente non in linea con le idee ed i principi a cui la base continua ad ispirarsi.
Queste degenerazioni possono essere ravvisate nell’apertura alle istanze revisioniste dirette a mettere in discussione i valori della Resistenza e ad offrire una nuova verginità politica agli adepti della Repubblica di Salò, nella costante ricerca di un confronto istituzionalmente corretto con un avversario che non perde occasione per manifestare quotidianamente la sua indole parafascista e antidemocratica, nella manifesta incapacità di avanzare sui grandi temi della giustizia, del lavoro, delle relazioni internazionali, della laicità dello Stato delle proposte in grado di assecondare le istanze avanzate dalla maggioranza dei militanti.

5. Una forza unitaria della sinistra italiana come alternativa al Partito Democratico

L’attuale prospettiva di procedere allo scioglimento dei DS, di privare l’Italia di una forza politica che si ispiri ai valori del socialismo europeo , rappresenta in questo senso la logica evoluzione di quella deriva moderata di cui il suddetto partito è in questa fase oggetto, a causa delle basse logiche di potere che animano le scelte varate dall’attuale gruppo dirigente.
Costituisce infatti una verità incontrovertibile l’affermazione secondo cui il Partito Democratico (già dotato di una sua iniziale struttura, di una scuola di formazione, di un periodico di riferimento) non ripete i suoi caratteri essenziali dalle indicazioni avanzate da tesserati e simpatizzanti attraverso serrati dibattiti svoltisi nelle assemblee o nelle sezioni, ma dalle determinazioni espresse da un’oligarchia, da quella ristretta cerchia di eletti riunitisi nella già descritta assise di Orvieto, di cui fanno parte gli stessi illuminati intellettuali che, dopo aver rischiato di consegnare ancora una volta al Cavaliere le chiavi di Palazzo Chigi, ne hanno addirittura caldeggiato la nomina a senatore a vita.
Prendendo atto delle decisioni assunte da questa sorta di conclave ulivista (autoqualificatosi come rappresentativo della maggioranza degli elettori del centro-sinistra), anche l’interessante costruzione avanzata da Paolo Prodi avente l’oggetto l’attribuzione al popolo delle primarie del potere di eleggere i componenti degli organi direttivi del nuovo partito risulta alla lunga poco risolutiva: prima di discutere su “come” realizzare siffatto partito, occorre infatti comprendere “se” effettivamente sussistono ragioni valide per procedere alla sua costituzione.
Dal mio punto di vista, è proprio su quest’ultimo aspetto che si sta consumando una frattura tra il popolo diessino ed i vertici del partito: prendendo coscienza di una simile frattura, è possibile affermare l’esigenza di un ricambio generazionale (a livello sia locale che nazionale) dell’attuale classe dirigente, presupposto indispensabile per restituire ai DS una collocazione ideologica inequivocamente riconducibile ai valori del socialismo europeo e per offrire ad un elettorato deluso e disorientato un nuovo modello in cui credere, un nuovo punto di riferimento a cui ispirarsi.
In questo senso, non si può non guardare con interesse alla proposta – inizialmente formulata da Diliberto e rilanciata in questi giorni anche da alcuni esponenti del Correntone – diretta a realizzare una forza unitaria della sinistra italiana, capace di coinvolgere anche quelle componenti di Rifondazione che faticano a riconoscersi negli effimeri rigurgiti di estremismo che talvolta contraddistinguono le frange più estreme di quel partito.
La creazione di una sinistra forte ed unita, imperniata su un forte consenso popolare ed immune alle tendenze al trasversalismo che talvolta pervadono alcune forze dell’attuale maggioranza di governo, non solo sarebbe utile per attribuire incisività e chiarezza all’azione politica dell’Unione, ma garantirebbe anche la sussistenza a livello istituzionale di una realtà in grado di contrapporsi all’incedere del Caimano con la stessa passione che ha caratterizzato, negli ultimi cinque anni, l’attività dei movimenti operanti nell’ambito della società civile.

1 commento:

Massimo Marini ha detto...

Curioso che entrambi domenica abbiamo pensato di scrivere un intervento sull'alternativa "sinistra" all'unificazione dell'Unione. Come ho scritto anche nell'intervento in risposta a Mannoni (di seguito), secondo me nell'area di sinistra dell'Unione sta succedendo l'esatto contrario di quanto avviene nella zona moderata. Ovvero è la base che preme per una unificazione e una sintesi (con i vertici che fanno orecchie da mercante) e non viceversa. Sarebbe interessante provare a creare un movimento di sintesi che raccolga le sensibilità (giovani magari, le meno inquinate) dei partiti dell'area definita radicale ma che a me piace chiamare semplicemente socialista. Sinistra e Libertà sarebbe un nome perfetto... ne parleremo. In bon'ora, Massimo.
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Franco Mannoni nel suo intervento sul sito DS di Cagliari, nell'analizzare lo "stato avanzameno lavori" del costituendo (?) Partito Democratico, sottolinea e sintetizza in modo puntuale alcuni risvolti tanto in ombra quanto illuminanti per meglio comprendere la reale natura dell'ennesima "Cosa" di area riformista italiana. La mancanza di un manifesto politico comune ne è certamente l'aspetto più eclatante in quanto inevitabilmente corrisponde alla indeterminatezza di un progetto senza progetto. Il generico richiamo alla necessità di semplificazione dello scenario partitico italiano "invocato dalla gente" unito al troppo superficiale riferimento alla tradizione riformista delle forze politiche coinvolte, rappresentano ben poca cosa se rapportate alla grandezza politica di un impegno di tale portata.

SOLO UNA CASA PER PRODI?
I vertici di questo centrosinistra hanno manifestato più volte insofferenza verso chi sottolineava l'aspetto poco "democratico" della nascita del nuovo Partito Democratico, evidenziandone magari i tratti verticistici ben poco condivisi dalla base militante e dagli elettori progressisti in genere. Il risultato alle politiche prima e alle amministrative poi, è stato a dir poco scoraggiante. Quasi mai in modo significativo al di sopra della semplice sommatoria Ds+Dl, alle amministrative una unicità a dir poco lontana dalla compattezza nazionale, molta freddezza da parte dell'elettorato più giovane. Persino il poco calore che le primarie aveva accesso, pure nella loro manifesta falsità (nel senso che il leader era già stato scelto), si è spento quasi subito, quando cioè sono emerse le prime difficoltà legate alla ripartizione delle poltrone tra i Ds e la Margherita una volta conquistato il governo. Tutta questa rivoluzionaria voglia di unità sembra più un'espediente per dare una connotazione partitica che di rivoluzionario ha ben poco, considerato il retrogusto catto-moderato che si intravede e che riporta alla mente quella DC che morta e sepolta, ogni tanto prova a resuscitare ora in salsa conservatrice ora in salsa riformista. Probabilmente ci si trova di fronte al capolinea della tanto pubblicizzata "corsa al centro", che sta trovando la propria sintesi nella creazione di un partitone che dia identità al Prodi team, che in qualche modo al Governo ti ci porta.

IL TEMPO NON E' MAI COMINCIATO
Per queste ragioni sarei più propenso ad affermare che il tempo per la partecipazione democratica alla realizzazione del Partito Democratico non sta scadendo... semplicemente perché non è realmente mai cominciato. Fin dall'inizio di questa italica vicenda, la base Ds+Dl ha solo potuto esprimere un parere consultivo che seppur formalmente ascoltato, non ha mai dato l'impressione di assumere quel peso vincolante che meriterebbe. Il rischio reale a cui si va incontro, è la nascita di una ennesima compagine politica che riduce di una sola unità il numero di partiti italiani, ma in compenso aumenta a dismisura le fazioni, le divisioni, le correnti, i distinguo e in sostanza il malcontento e la distanza tra base e vertici, ed estendendo, tra cittadino e politica.

IN SARDEGNA, IL GROTTESCO
E' naturale che i vertici nazionali ostentino sempre entusiasmo alla sola menzione del nome magico Partito Democratico, e di riflesso lo stesso comportamento viene assunto dai politici sardi. Ma quando si comincia a intravedere il grottesco, allora ci si dovrebbe realmente allarmare. Mi riferisco alle dichiarazioni rilasciate da Antonello Soro a margine dell'incontro tenuto alla Confcommercio di Sassari qualche giorno fa, con oggetto proprio il laboratorio del nuovo Partito. Davanti ad una platea che palesemente non stava sotto i cinquant'anni, Soro ha avuto lo stomaco (e ce ne vuole) di affermare che il progetto sta scatenando entusiasmi mai visti prima d'ora soprattutto tra i giovani. Se poi ci si aggiunge l'assoluta falsità (i dati parlano chiaro, c'è poco da calcolare) del successo elettorale che secondo i suoi calcoli rappresenterebbe ben oltre la semplice sommatoria dei due partiti attualmente impegnati ne processo rivoluzionario del PD, è evidente come il rischio che il cittadino-elettore si trovi davanti ad un semplice riassetto di potere è elevatissimo.

A SINISTRA INVECE
Solo due parole su quanto sta invece accadendo nell'area definita (a mio modo di vedere a torto, ma questa è un'altra storia) "radicale" della sinistra italiana. In questo settore della maggioranza sta accadendo l'esatto opposto. E' la base che chiede una sintesi ai vertici, che auspica l'unificazione dei comunisti, degli ambientalisti, dei socialisiti (veri) dell'alternativa vera insomma, per salvaguardare il peso politico di una Sinistra che rischia di scomparire sotto il macigno del livellamento moderato. Ma anche in questo caso i vertici sembrano così lontani...