domenica, febbraio 12, 2006


UN’AUTENTICA RAGIONE DI INDIGNAZIONE


L’annuncio della candidatura di Gerardo d’Ambrosio nelle liste dei DS ha contribuito a riaprire lo scontro tra politica e giustizia, scontro destinato a rendere ancor più incandescente il già infuocato clima della campagna elettorale in corso.
In una delle tante apparizioni televisive che hanno caratterizzato gli ultimi trenta giorni, il Presidente del Consiglio ha infatti espresso la sua “indignazione” con riferimento al deprecabile fenomeno della militanza politica di alcuni magistrati, individuando proprio nella candidatura di D’Ambrosio alla carica paralamentare e nella nomina di Bruti Liberati (descritto come una delle toghe più <> d’Italia) ad un ruolo di vertice presso la procura di Milano due elementi utili a confermare l’esistenza di quella connivenza tra determinati settori del potere giudiziario e le principali forze della sinistra che costituirebbe la ragione giustificativa tanto della miriade di procedimenti a suo carico, quanto del “graduale insabbiamento” delle inchieste relative al caso Unipol.
I principi cardine del teorema elaborato dal Cavaliere sono stati puntualmente recepiti da tutti gli alleati del centro-destra, i quali, nel denunciare una volta di più l’esistenza di una persecuzione in danno del loro leader, hanno colto l’occasione per qualificare l’Associazione Nazionale Magistrati come una sorta di setta sovversiva e Magistratura Democratica come una forza politica a tutti gli effetti inserita nell’ambito dell’Unione.
Premesso che non si intende in questa sede proporre una valutazione in ordine alla possibilità di configurare le dichiarazioni del premier come penalmente rilevanti, non si può non rilevare come la costante aggressione ad esponenti della magistratura, perpetrata attraverso l’infamante accusa di manipolare a fini politici le indagini in corso, costituisce una pratica non ammissibile nell’ambito di una democrazia evoluta, specie allorquando siffatte contestazioni si basano su macroscopiche distorsioni della realtà di fatto.
Posto infatti che le inchieste relative agli scandali Unipol e Antonveneta (condotte dalla procura di Milano e da quella di Roma) sono in pieno svolgimento, l’affermazione secondo cui i pm milanesi sarebbero impegnati nel tentativo di boicottare tali procedimenti risulta del tutto priva di fondamento, specie se si considera che fu proprio l’ufficio a cui tali magistrati fanno riferimento a prospettare, non più di sei mesi fa, l’esistenza di profili di illiceità penale nelle manovre finanziarie che avevano fatto da sfondo alle scalate di determinati gruppi imprenditoriali al vertice di alcuni ben noti istituti bancari.
Del pari, il teorema diretto a sostenere l’esistenza di un disegno persecutorio alla base dei molteplici procedimenti penali in cui risulta coinvolto Berlusconi non costituisce solamente la poco efficace linea difensiva di un soggetto che, in questi cinque anni, non ha esitato a fare ricorso a tutto il potere riconnesso alla carica da lui ricoperta per risolvere le proprie pendenze giudiziarie, ma rappresenta allo stato attuale una macroscopica alterazione della verità che emerge dalla lettura degli atti processuali.
In questo senso, può considerarsi illuminante la sentenza relativa al processo SME (salutata dall’intera Casa delle Libertà come la massima sconfitta dei c.d. maramaldi in toga), la quale, nel disporre il non doversi procedere in confronto del Presidente del Consiglio in ragione dell’intervenuta prescrizione del reato conseguente all’applicazione delle circostanze attenuanti generiche (il cui riconoscimento presuppone per forza di cose l’accertamento del reato oggetto di imputazione), indirettamente conferma la piena validità dell’impianto accusatorio sostenuto da Gherardo Colombo e da Ilda Boccassini.
Tutto ciò posto, non si vede la ragione per la quale la candidatura di D’Ambrosio dovrebbe essere valutata con indignazione dagli esponenti del centro-destra. Premesso che l’ordinamento riconosce ad ogni esponente del potere giudiziario il diritto ad avere delle idee e ad esternare il proprio pensiero attraverso molteplici forme di partecipazione alla vita pubblica senza che l’adesione ad un determinato orientamento politico possa intaccarne il prestigio nell’esercizio della funzione giudicante o requirente, meno che mai può essere contestata la partecipazione ad una competizione elettorale da parte di un ex magistrato ormai in pensione da tre anni, il quale intende ora mettere la sua esperienza e la sua indiscussa preparazione al servizio della collettività.
Nel momento poi in cui questo fatto costituisce lo spunto utile alla maggioranza di governo per sostenere che “c’è del marcio all’interno della magistratura italiana”, il discorso si sposta bruscamente dal piano giuridico a quello più squisitamente politico. Di fronte ad un legislatore dimostratosi negli ultimi cinque anni interessato non a porre rimedio ai reali problemi della giustizia ma solamente ad assecondare gli interessi personali di determinati personaggi (anche attraverso l’attuazione di una riforma dell’ordinamento giudiziario utile soltanto a vincolare i magistrati alle volontà contingenti della fazione politica prevalente in un dato momento storico), risulta infatti lecito domandarsi se la costante violazione del principio della separazione tra i poteri dello Stato non abbia messo in pericolo la stabilità di quegli equilibri su cui si regge l’ordinamento democratico. La radicale alterazione di questi equilibri può in effetti costituire un valido argomento per essere indignati.
Carlo Dore jr.

Nessun commento: