sabato, maggio 13, 2006


NAPOLITANO E LA LEZIONE DI BERLINGUER


Nell’editoriale pubblicato su “l’Unità” lo scorso 11 maggio, Antonio Padellaro rilevava come l’ascesa di Napolitano al Quirinale rappresenta il definitivo superamento di quello storico pregiudizio in forza del quale l’attribuzione di un’alta carica istituzionale ad un esponente dell’area postcomunista deve essere intesa come una minaccia per la stabilità della nostra democrazia.
Invero, quei militanti della Casa delle Libertà che, vittime di una faziosità talmente greve da sfociare nella miopia, sono giunti ad accusare di “estremismo” il nuovo Capo dello Stato hanno dimostrato una volta ancora di non conoscere né la sua personale evoluzione politica né tantomeno la storia del partito da cui proviene.
Definito “un laburista italiano” dagli stessi leaders del Labour Party , i quali, già negli anni della Guerra Fredda, ebbero modo di apprezzarne l’equilibrio ed il senso della misura, il neoeletto Presidente della Repubblica ha lasciato intendere di voler favorire il sereno confronto tra gli schieramenti in campo, confermando così quella vocazione al dialogo che ha caratterizzato la sua lunga militanza nel PCI.
Fu proprio questa sua vocazione ad indurlo a manifestare (nel famoso editoriale del 1982) la necessità di un costante confronto tra il suo partito ed i socialisti di Bettino Craxi, mettendo così in rilievo il suo evidente scetticismo verso la questione morale formulata in quei giorni da Berlinguer.
A seguito della pubblicazione dei nominativi degli adepti alla loggia P2, il Segretario denunciò infatti con forza l’irreversibile processo di degenerazione cui erano sottoposti i partiti di governo (lucidamente descritti come vuoti strumenti utili per assecondare le aspirazioni dei tanti centri di potere di cui si componeva il sottobosco della politica italiana), rivendicando per i comunisti una supremazia morale che li rendeva “diversi” rispetto ai sostenitori dei suddetti partiti.
Premesso che Napolitano sostenne le sue posizioni con tanta coerenza da abbandonare il comitato di segreteria, la Storia ha confermato la assoluta fondatezza della questione morale, confermando come DCI e PSI fossero i vertici di un sistema corruttivo talmente radicato nelle istituzioni da divenire l’asse portante della vita politica ed economica del Paese.
Il consenso di cui attualmente gode Berlusconi, figlio prediletto della Milano da bere cresciuto all’ombra di Craxi con la benedizione della già citata loggia P2, rappresenta in questo senso un’ideale linea di continuità tra prima e seconda Repubblica: la classe politica che faceva riferimento al CAF, contro la quale Berlinguer si era strenuamente battuto anche negli ultimi giorni della sua vita, non è stata spazzata via dai tanti scandali di cui è stata oggetto, culminati nel ciclone di Tangentopoli. Essa semmai si è rafforzata, potendo ora contare sulla diretta disponibilità di un incommensurabile potere finanziario e mediatico, reso ancor più inquietante e pericoloso dalle tendenze eversive del soggetto che ne è titolare.
Rappresentando pertanto il Cavaliere una colossale anomalia che inficia il corretto svolgimento della vita democratica, con una simile anomalia Napolitano sarà chiamato a confrontarsi, nella sua opera di pacificazione di un Paese ideologicamente spaccato a metà.
Ma, nel momento in cui prenderà possesso del suo ufficio al Quirinale, non potrà non tenere presente la correttezza delle valutazioni, da lui al tempo non del tutto condivise, che stavano alla base della “questione morale” proposta da Berlinguer: coerenti con i valori della loro tradizione, i postcomunisti devono affermare ancora la loro diversità rispetto a quanti plaudono meccanicamente alle esternazioni del Caimano, anche a costo di screditare apertamente le istituzioni che ora risultano sottratte al loro controllo.
Quelle valutazioni insegnano che, con riferimento a determinate forze politiche, la strada del dialogo non risulta percorribile.

Carlo Dore jr.

1 commento:

Carlo Dore jr. ha detto...

QUIRINALE: UNA SCELTA PERICOLOSA

Manca poco oramai all'apertura delle votazioni a camere riunite per l'elezione del nuovo Presidente della Repubblica Italiana. La maggioranza, con i soliti mal di pancia come al solito mal celati, si sta chiudendo a riccio attorno al proprio candidato, il Presidente dei Democratici di Sinistra Massimo D'Alema.
LA SCELTA DELL'UNIONE. UNA SCELTA PERICOLOSA.
Cedendo alle pressioni del leader Maximo, l'Unione ha dimostrato in sostanza di non avere per nulla superato un modo di fare politica tutto incentrato sui personalismi, sulle spartizioni, sui pesi da bilanciere sempre pericolosamente lontano dal punto di equilibrio. Incurante dei mormorii che prendono ogni giorno volume provenienti, anche se ad intensità differente, da un po' tutte le direzioni, la coalizione procede come un caterpillar nell'occupazione di tutte le cariche istituzionali. Seppur leggittima però, la scelta di questa linea di condotta sta portando la maggioranza su di una strada molto insidiosa. In primo luogo per la forma: almeno "formalmente" l'elezione del Capo dello Stato dovrebbe essere un momento di confronto/incontro tra maggioranza e minoranza, che insieme, nei limiti della normale contrapposizione politica, dovrebbero quantomeno tentare di convergere su un candidato al riparo da successive delegittimazioni. La formula della maggioranza qualificata richiesta nelle prime tre votazioni non è una semplice scelta burocratico-procedurale; è l'espressione della volontà dei Costituzionalisti che in questo modo hanno voluto indicare e suggerire un cammino di legittimazione reciproca appunto, la cui massima espressione è l'accordo sulla personalità del Presidente della Repubblica. Oltre la forma la sostanza, e dunque la parte concreta della questione. Non sembra essere particolarmente "opportuno" portare Massimo D'Alema al Quirinale per almeno un paio di ragioni: l'opposizione ferma e irrevocabile di destra e soprattutto del centro cattolico (l'Avvenire l'ha definita candidatura impraticabile); i malumori nella sinistra del centrosinistra; la percezione nell'opinione pubblica di un Presidente non più di tutti, come Ciampi ha voluto fortemente dimostrare di essere, ma di una parte sola.
UNA DONNA AL QUIRINALE. UNA SCELTA NUOVA, CORAGGIOSA, PROGRESSISTA.
Vista l'oggettiva mancanza di personalità super partes nel panorama politico istituzionale italiano, e dunque l'inapplicabilità del "metodo Ciampi" (ovvero concertato e condiviso) per la scelta del nome del candidato, l'Unione avrebbe potuto trasmettere al Paese, all'opinione pubblica, all'Europa che ci guarda, un forte segno di rottura e cambiamento con il passato, mediante la candidatura di una donna. Difficilmente una donna, anche se schierata, avrebbe incontrato resistenze e attriti tanto imbarazzanti quanto quelli a cui deve far fronte la candidatura di D'Alema, se non altro perché agevolata da quella continua richiesta di "donne in politica" che continua incessantemente a premere dal basso. Sarebbe stata l'occasione per "svecchiare" almeno nei metodi il modo di fare politica in Italia, di allineare il nostro Paese, nuovamente progressista, ai moderni socialismi europei. In definitiva sarebbe stata una scelta alla fine dei conti foriera di consensi e non di critiche e biasimi.
MA ALLORA PERCHE'?
E' naturale che i vertici dell'Unione non sono così sprovveduti da non avere ben chiara davanti questa possibilità, anche perché da più parti si sono levati suggerimenti su questa lunghezza d'onda. Ma allora perché questa scelta così impopolare, soprattutto se si considera che un po' tutti, addetti ai lavori e non, si aspettavano un D'Alema protagonista nella squadra di Governo, magari agli Esteri, sua naturale collocazione? Una risposta plausibile e condivisibile prova a darla Corrado Formigli, giornalista-conduttore di Sky, quando afferma che "il potere che cerca D'Alema è un potere più sottile e penetrante di un semplice potere esecutivo. E' il potere di costruire regole, gettare ponti, ricostruire e rimettere a posto un Paese spaccato, ragionare sulla Costituzione, parlare di valori condivisi" e dunque, in definitiva, se gli si dovessero realizzare gli intenti, passare alla Storia. Negli ultimi dieci anni D'Alema si è costruito una fama di "tessitore d'intese", si è comportato sempre in modo istituzionalmente ineccepibile (Bicamerale, dimissioni da Premier dopo la sconfitta alle Regionali, ritiro della candidatura per la Presidenza della Camera, etc.), ha acquisito peso personale e politico, ha concesso molto ed ora presenta un conto che nessuno tra i vertici dell'Unione riesce a negargli, ma che rischia di essere troppo salato per il futuro del progressismo e del socialismo nel nostro Paese.
Massimo Marini wwww.massimomarini.blogspot.com